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13 gennaio 1915, il Terremoto nella Marsica – Giovanni Cena

Il poeta e scrittore Giovanni Cena racconta il suo arrivo nella Marsica distrutta dal terremoto. Attivamente impegnato nel risanamento e nell’alfabetizzazione dell’Agro Romano, Cena aveva celebrato l’Abruzzo pochi anni prima attraverso un reportage dal titolo “Visioni d’Abruzzo” nel 1909 (LINK). Il reportage che segue fa parte di una raccolta dal titolo “Saggi Critici”, la prima pubblicazione su “Nuova Antologia” risale al 1 febbraio 1915.

Avezzano nei giorni successivi al Terremoto del 13 gennaio 1915

Ancora un terremoto! Si pensava che il disastro di Reggio e Messina, come era stato fra i più grandi nella storia del mondo, non sarebbe stato eguagliato per secoli. E a sei anni di distanza un altro cataclisma, meno vasto, ma non meno intenso, colpisce questa tanto travagliata Italia! La scossa avvenne il 13 gennaio alle ore 7,55 e durò circa 30 minuti secondi. Roma la risentì fortemente, ma ne ebbe pochissimi danni. Un gran sollievo egoistico, la manìa di evocare le proprie sensazioni e una strana inerzia caratterizzano lo stato psicologico degli scampati dal terremoto. A tale stato sembra abbiano partecipato un po’ tutti a Roma, dai funzionari dei telegrafi e delle ferrovie a quelli dell’Interno, che non s’accertarono immediatamente se la forte scossa qui risentita fosse stata una radiazione d’una scossa ben più funesta in qualche regione non lontana. Una fiorente città di 13.000 abitanti fu rasa al suolo in un attimo: altre città di poco minori e moltissimi villaggi per un raggio di cinquanta chilometri dall’epicentro che fu l’antico lago di Fucino, distrutti in parte o resi inabitabili. Il sacrifizio di vite umane fu enorme, e proporzionalmente maggiore che nel disastro di Messina. Nelle strade più ancora che nelle case, e nelle stesse piazze la morte raggiunse le sue vittime. Le chiese in parecchi villaggi furono dei carnai e colle loro ecatombi, che il piccone dello scavatore quasi lasciò intatte, saranno convertite in ossuari. Fa uno strano effetto rileggere i giornali del pomeriggio e della sera del 13 gennaio. L’Agenzia Stefani dà notizia di danni in paesi della provincia romana situati all’estrema periferia dal centro del disastro.

Di Avezzano voci contradittorie: si aspettano notizie dal Sottoprefetto — che era morto insieme a quasi tutti gli altri funzionari dello Stato. Eppure a Tivoli alle 14 vi sono già dei feriti, giunti in treno da Avezzano, i quali affermano che la città è tutta spianata. Eppure la notizia di Avezzano è stata telegrafata a Roma da Tagliacozzo alle 11 del mattino. A tarda notte si hanno notizie gravi da Sora, da Sulmona, da Aquila, da Teramo; la zona è vasta. I terremoti usano avere un epicentro, il quale sarà tanto più intensamente colpito quanto più esteso è il cerchio intorno. E i sismologi che fanno nei loro osservatorî? La notte e il mattino del 14 sono giunti ad Avezzano giornalisti, funzionari, soldati e, sollecito sempre verso ogni sventura patria, S. M. il Re, che telegrafano al Governo sulla enormità del disastro e sulle necessità di vasti, pronti soccorsi.La linea ferroviaria tra Avezzano e Roma funziona, ma essendo ad un solo binario e con forti pendenze funziona in modo lentissimo: per lasciar passare i treni dei feriti avviati verso Roma, i treni ascendenti impiegano, invece che le normali tre ore, fino a 24 ore. Il giorno 17 il tragitto durava ancora 12 ore! Coloro che giunsero sul luogo il giorno 13 e il seguente — squadre di soccorso da tutte le città d’intorno — udirono le rovine risonare di grida e di gemiti, videro membra vive sporgersi tra le travi e i calcinacci, sentirono agonizzare intorno a sé tante vite per la cui salvezza il soccorso era disastrosamente insufficiente. Intanto i superstiti si aggiravano supplicando aiuto per cercare i loro cari, mentre donne e bambini domandavano pane e riparo.

Il Castello Orsini di Avezzano distrutto dal sisma

Anche questa volta l’opera privata fu più sollecita che l’azione governativa, quantunque entrambe troppo impari al bisogno. ‘Tosto da Roma e da altri centri partirono, oltre a gruppi di soccorso e a squadre di pompieri, numerose automobili cariche di viveri e di indumenti, che si distribuirono lungo la via Valeria e la strada di Napoli, nei paesi del Fucino e delle valli del Liri e del Salto. Ma i paeselli di montagna — molti sono situati sopra i mille metri e parecchi non hanno che strade mulattiere — attesero a lungo assistenza e viveri. I feriti leggeri fecero lunghe marce a piedi, estenuandosi, per giungere a un centro di soccorso; fortunati quelli che poterono prender d’assalto un treno per giungere a Sulmona o a Roma. I feriti gravi attesero lunghi giorni e la cancrena fece tra essi strage. I sepolti, feriti o incolumi, che avrebbero potuto esser salvati nei primi giorni, — se n’estrassero di vivi il nono giorno — quanti? Terribile interrogazione. Quando la distribuzione dei soccorsi diventò regolare e sufficiente, grazie anche all’intervento di Comitati costituitisi a Roma, a Milano, a Torino e all’opera di potenti giornali che raccoglievano l’innumerabile anonimo contributo dei piccoli offerenti, un alternarsi di pioggie, di nevicate, di bufere sulle alte strade, arenò in gran parte il movimento di soccorso. Le intemperie imperversano anche ora. Quel che sarebbe stato prezioso e lodevole il primo giorno diventa insufficiente e criticabile il quarto e il quinto. Otto giorni dopo la catastrofe la distribuzione di viveri e coperte era regolare, ma allora occorrevan già le baracche. Quando verranno le baracche, il disagio e le malattie nei profughi, e, dobbiam dirlo, nei soldati stessi, saranno già tali da richieder che quelli sian portati altrove e questi sostituiti. Infatti una vita di emozioni, di lavoro ininterrotto e di responsabilità, qual è quella dei nostri ammirabili ufficiali e soldati, non si sopporta impunemente più di dieci o dodici giorni !

Quando giunsi ad Avezzano, domenica 17 gennaio, era notte. Le squadre di salvataggio si erano ritirate dalle macerie: solo in un punto un gruppo di pompieri di Roma era intento a finir di disseppellire un giovane, il quale rimaneva ancora preso con un piede sotto un trave. Lavoro delicato e paziente, che proseguiva dal mattino, che compievasi in un religioso silenzio. Tutti i petti trattenevano il respiro, sì che le parole fioche ch’egli diceva e che soltanto comprendeva l’uomo sceso nella sua buca, davano una acuta emozione col loro solo suono. Funebre pellegrinaggio! Un campo sterminato e disuguale di pietre, di calcinacci, di travi, da cui emergeva qualche moncone di palazzo, di chiesa. Qua e là cadaveri rattratti, coperti da un cencio. Mentre una guida illuminava i luoghi con una torcia a vento, ricordando a mano a mano le fattezze della città che avevo visitato più d’una volta, irriconoscibili, mi riafferrava la terribile sensazione che avevo avuto in Calabria. Parevami sentire di sotterra non già una voce di rimprovero, ma come un’emanazione vivente di dolore, d’ira, di odio, tutta la spaventosa agonia dei sepolti vivi, contro chi va libero sul loro capo, sotto le stelle. Certo il soccorso era venuto tardo e scarso. Poche case avevano avuto la visita dei ricercatori, mentre sin dal primo giorno ognuna avrebbe dovuto avere il suo ascoltatore, il suo tentativo d’indagine. Ma quando pure migliaia d’uomini fossero stati sin dalle prime ore sulle rovine di Avezzano, forse non molte vite si sarebbero salvate, tanto il campo di macerie si presentava fitto, intricato, compatto !

Ad ogni largo, dove prima era una piazza, pattuglie di carabinieri bivaccavano intorno a focherelli. Altri fuochi vegliavano nei punti dove trovavansi valori ancor sepolti. Avanzavamo. Ogni tanto un rumore ci fermava di colpo. Un fischio lontano di treno, una voce di animale, o un gemito umano vicino? Tutta la nostra vita si tendeva verso il suolo. A un certo punto, avanzando, fummo inchiodati da un gemito. « È qui », disse uno, accennando a destra. Ma un altro indicava a sinistra. Allora un uomo, che stava poco lontano, un dissepolto di due giorni innanzi, accorse. « Avete sentito qualcosa? Lì sta una mia figliuola…. Concetta!». Si chinò colla bocca sulle pietre. « Ah Cuncettée… ». Silenzio lungo. Nulla. E la voce continuò a chiamare: cominciava ferma il nome e lo finiva con una inflessione lunga e straziante… Mi risuona dentro ancora.

18 gennaio. — Con una squadra del municipio di Roma. Ha finito il suo lavoro di scavo, sostituita dai soldati, e sta per tornare; ma prima vuol collocare qualche sacco di pane che le è rimasto. A Cappelle, dove scendiamo dal treno, ce n’è a sufficienza. Molte automobili provenienti da Roma depongono volentieri il loro carico lungo la strada e non amano internarsi. Un pastore di Forme, paesucolo a oltre mille metri sul mare, addossato al Velino, chiede viveri. Saremo i primi lassù. Caricati i sacchi su un carretto, i giovani ingegneri e cantonieri di Roma si lanciano a piedi animosamente lungo la strada interminabile. La pianura sembra un greto sterminato: è seminata di ciottoli che in lontananza biancheggiano fitti come una brina: eppure fra essi spuntano i fili del grano, e su di essi innumerevoli piante di mandorlo attendono la primavera. Le donne lavorano in questi mesi a rompere le mandorle, il cui provento forma un’importante risorsa di quelle famiglie. Strani, profondi solchi, come letti di fiumare, scendono alla base del Velino, la bella montagna calma e possente, che biancheggia verso il cielo. Tali tortuose correnti devono aver formato in tempi remoti questo immenso ghiareto che è il piano tra Scurcola e Albe. Forme è disfatto, come gli altri villaggi, in mezzo ai suoi pascoli verdeggianti. Una squadra di trentini vi è arrivata da tre giorni e attende attivissima agli scavi. Mentre ci affannavamo arrancando per le scorciatoie, due automobili sono giunte ora a toglierci il piacere di essere i primi fornitori. Tanto meglio se il pane abbondi per qualche giorno, a compensare i robusti montanari della fame patita finora. 

Donna di Avezzano sopravvissuta al sisma del 1915

19 gennaio. — « Le Cese! Nessuno va a Le Cese!» implora da ieri un frate alla stazione di Avezzano. M’avvio a piedi, solo. ‘Traverso un sobborgo : case di contadini formate con motte di terra. Eppure, m’informano, esse erano assicurate contro gl’incendi con tutta la loro roba. Gente risparmiatrice: ma chi v’assicura contro il terremoto? Fra Avezzano e Le Cese s’innalza un alto contrafforte, il monte d’Aria. Lungo la salita mulattiera incontro uomini dei paesi di là, Corcumello, Pagliara, Castellafinume, alto Liri, che scendono verso la città a chieder del pane per le loro famiglie. Sulla cresta spunta una chiesa, la Madonna di Pietracquaria, che domina il Fucino da una parte e dall’altra i piani Palentini. Di fronte, in una insenatura riparata dal vento, un vivaio di pini e d’abeti alti quanto un fanciullo, sembrano intirizziti sotto il nevischio che comincia a volteggiare» sull’altura. Simili vivai ho scorto già a Pescina e a Collarmele. I monti d’Abruzzo, spogliati dalle razzie della speculazione moderna, si rivestiranno presto del loro manto verde, ricca dote delle nuove generazioni? La città appare di qui un vasto campo di cenere. Qualche massa più alta sembra essere stata una chiesa o una fabbrica. Scendendo dall’altra parte si scorge basso nel piano il villaggio. Lo spettacolo mette i brividi. Son dei muri scoperchiati, quasi dei pozzi, quasi dei sepolcri aperti, l’uno accanto all’altro. In un prato attiguo, delle piccole tende, un altare addossato a un muro, sotto un baldacchino. Il medico della Croce Rossa sta curando una ferita sul capo ad un ragazzo, mentre la neve rada turbina intorno. Barattoli e strumenti chirurgici sono collocati su un tovagliolo sopra un baule. « Me dòle!» grida il ragazzo, « Me dòle la coccia! », mentre il padre gli tiene il capo colle mani tremanti. « Dica a Roma che ci portino via i bambini!» esclama il medico, al quale mi presento. « Stanotte non ho sentito che pianti di bimbi, sotto queste piccole tende dove stanno ammucchiati. Si gela!». Pane non ne era venuto ancora a Le Cese, nemmeno per i soldati, i quali si nutrivano di gallette. Su 1250 abitanti, mille eran morti e cinquanta feriti portati a Roma. La sola chiesa serba 400 cadaveri. Come in altri paeselli dei dintorni, a Ortucchio, ad Ajelli, a Gioia, i padri passionisti vi facevano non so quali divozioni, e furono uccisi insieme ai loro fedeli. Del robusto campanile non rimane che la base e la campana giace rovesciata sulle rovine. I primi aiuti furono qui portati dalla squadra triestina, la quale salvò feriti e seppellì cadaveri, poi se n’andò, dopo aver fabbricato, con assi raccolte fra le macerie, due baracche cui ha posto nome «Trieste» e «Istria».

Pescina – Panorama prima del terremoto del 13 gennaio 1915

20 gennaio. — Corsa in automobile, diretti a Pescina, lungo il Fucino, sotto la neve fitta. Le innumerevoli case coloniche sono schiacciate al suolo. Paterno, Cerchio, polverizzati. A un bivio un gruppo di donne, simili a furie scapigliate, piangenti, chiedono pane: vuotiamo loro dei nostri sacchi. Sono tutte incolumi coi loro uomini, perchè abitavano in capanne. Perduta la strada, ci troviamo a Collarmele. Feriti e profughi son tutti rifugiati a Sulmona e il paese, distrutto, è quasi abbandonato. Spira un vento che passa i vestiti e penetra nell’ossa. Poveri soldati, coi berrettucci che non riparano il viso, senza guanti, con le spalle aggruppate sotto le mantelline. Verso Pescina ci alziamo sul piano del lago. Su una china salgono due figure nella neve folta, curve sotto un peso. Mi s’affaccia alla memoria la Morte nel sublime trittico di Segantini. Pescina, fantastica città con le case parte in piedi, ma fulminate, spaccate, in un equilibrio pauroso che ogni nuova scossa sconvolge e rimuta. Nella strada principale così minacciata passano, venuti da Gioia, cinque carri di feriti, pieni di gemiti sommessi e strazianti.

22 gennaio, notte. — Pioggia e neve ad Avezzano. L’attendamento della Sanità militare, coperto di neve, sembra un fantastico villaggio orientale. A sera, le finestre illuminate degli ospedali da campo dànno un senso di sollievo e di pace. Molte volte ho sostato in questi giorni davanti alla sala di pronto soccorso. Portate a spalle dai soldati, o sulle automobili, giungono dai paesi vicini le barelle col loro doloroso peso, uomini, donne e bambini, da cento a centocinquanta feriti al giorno, di cui venti o trenta gravissimi, ai quali è necessario fare operazioni d’urgenza o applicare apparecchi per farli viaggiare in treno. Nell’ospedale giacciono quelli che non possono essere rimossi, un centinaio d’infermi. E i medici, mirabili per attività, gravità e dolcezza, sono in gran parte volontari, che hanno lasciato in città le loro clientele. Passano da una tenda all’altra le figure bianche delle dame infermiere, volti dolci e gravi, portando medicine ed alimenti. Spinte dal freddo e dai disagi, madri e bambini sono scesi dai paesi circostanti e hanno atteso per l’intera giornata un treno che le porti a Roma grande, a Roma madre. Cadono per la stanchezza e quando la pioggia le immolla, il maggiore medico s’intenerisce, scuote il capo e le ospita sotto le tende dei feriti, promettendo che sarà l’ultima volta e che qualcun altro deve provvedere. Ma chi può resistere al pianto lungo, pauroso dei bambini? Lì presso, in una baracca dov’è un piccolo spaccio di tabacco e di vino, un unico tavolo è tutto occupato da soldati, seduti gomito a gomito. Che fanno? Scrivono delle lettere. Qualcuno ha la testa fasciata: qualcun altro tosse lungamente. Ma quel pianto di bambini! Sotto la tenda, mi provo invano a dormire!

I soccorritori prestano aiuto a una donna estratta dalle macerie

23 gennaio. — Neve in terra, nebbia nell’aria : densa e stillante, mi affanna il respiro. Fasciato come una mummia, sacco e lanterna, esco da Avezzano alle 6. I soldati nell’accampamento non hanno dormito anch’essi e si scaldano intorno a focherelli sparsi, perchè le tende son troppo gelide e umide. Emerge dal brusìo confuso qualche frase di tutti i dialetti, qualche spunto di canzone subito smorzato.
Eccomi nella strada. Qualche ombra mi rasenta diffidente: « Addo’ vai? ».
Mi raggiunge di lì a poco un uomo: « Non hai paura dei lupi a quest’ora? ».
-— « Hanno altro a mangiare adesso ! Dove siamo incamminati? ».
Egli va a Borgo Filippo, a rassicurar la sua vecchia madre, la quale non si persuade ch’egli sia salvo dal crollo di Avezzano, s’egli non le si farà vedere vivo. Egli affretta il passo. Voluttà di soffrire e d’esser solo! Chino il capo sul petto: soltanto accettando la morte oggi, domani, quando verrà, mi sento umano, mi sento mortale qui fra i morti.

Cappelle. Un incrocio di strade nazionali. Le case son cadute su di esse e hanno interrotto le comunicazioni per dei giorni. I soldati si lavano alla fonte. Un Crocefisso scarno, piantato sulle macerie, apre le braccia intirizzite: a’ suoi piedi sta una donna in ginocchio, rigida, a mani giunte. Cristo è lì, con te, che soffri, povera donnetta!
« Cristo è con te, le dico in pensiero, perchè è cogli uomini che soffrono. Dintorno è tornato il caos. Dio dov’è? In questo momento in una parte del mondo vi è qualcuno che invoca Dio, perchè aiuti i suoi milioni di uomini a schiacciare altri milioni d’uomini. E anche questo è il caos. Dov’è Dio?
« Noi sappiamo soltanto dov’è Cristo figliuol dell’Uomo. La chiesa è rovinata addosso a Cristo, ma egli n’è uscito ed è qui, sovra un monte di macerie, come sul Calvario ». La donnetta lo sa e il mio pensiero è superfluo.
La strada deserta si ravviva alquanto. Qualche carretto porta degli uomini intabarrati, cupi. Colpi di fucile tra la nebbia in distanza. Ammazzano cani randagi.

Magliano dei Marsi – La chiesa di S.Lucia devastata dal terremoto (Fondo G. Di Girolamo)

Magliano. Gli effetti del terremoto si vedono quasi in atto. Vi son delle case in piedi, col loro tetto, ma spezzate come fossero scatole di cartone, colle facciate piegate in mezzo, le imposte penzolanti. Il bel prospetto della chiesa è rotto a un angolo: l’interno abbattuto. Anche qui la chiesa sembra avere attirato delle vittime designate. Sulla strada delle rozze bare, in fila, e due uomini raccapezzano fra le macerie altre assi. Prima le casse per i morti, poi, se ne avanza, le baracche per i vivi… ! Scendo verso Corona. L’aria è popolata di grandi ali nere. Una nuvola di corvi volteggia sul villaggio. La bella massa del Velino sembra dormire nelle nuvole. Però scorgo molte frane di brecce lungo i suoi canaloni sino alla base. Silenzio nebbioso, deserto e gelido. Ad un punto mi assale un brivido; come la rivelazione della morte. Son troppo solo. Desidero ansiosamente di veder spuntare un uomo in fondo alla strada interminabile. Un campo arato di fresco mi ritorna la sensazione della vita… Ma dov’è colui che ha arato questo campo? A Massa d’Albe, come a Corona, gli scampati si son foggiati delle baracche con fascine di rami: ma ci piove dentro e mancano tele per coprirle. Sono accampati nel giardino d’un antico palazzo, che sembra un’abbazia, sparso di cippi romani e di begli alberi antichi.Quanti aratri abbandonati in capo al solco, lungo questi campi ! Altre mani li reggeranno a compir la sementa!

Cappelle dei Marsi prima del Terremoto del 1915

Albe, l’antica illustre Alba Fucense, colonia romana, colla sua estesa cinta di mura poligonali alquanto sconnessa dal terremoto, ha scrollato le poche casupole medievali che portava in alto ed è diventata tutto un rudere. A chi sale dal basso (essa poggia a 1016 m.) lungo le falde rocciose e deserte, sparse di cipressi rari e sperduti, resti di un’antica nobiltà, essa incute la riverenza d’unia cosa defunta: distrutta ieri, appare già, coi suoi tronconi di muri che formano un tutto cogli spuntoni calcarei coperti di musco su cui sono innestati, una rovina di tempi immemorabili.

Distrutta senza più risveglio; poichè i pochissimi superstiti hanno già deliberato di abbandonarla per scendere ai margini del proprio territorio, avvicinandosi al Fucino, la terra generosa per tutti. Le demolizioni della venerabile rocca siano vigilate da chi ha cura dell’arte e della storia, affinchè rimanga come santuario del passato. Eminente sul magnifico piano e dominante un’estesa veduta sino ai monti Simbruini, essa sarà fra i luoghi più caramente visitati d’Italia. La regione ora così tragicamente provata era una delle più progredite dell’Italia centrale. L’antico lago di Fucino, che al principio del secolo scorso nutriva appena qualche centinaio di pescatori e rovinava con periodiche inondazioni le campagne dintorno, dava lavoro oggi a quattordicimila agricoltori e altri lavoratori; faceva fiorire parecchie industrie; aveva creato dei ricchi commerci. Da Luco, da Trasacco, da Ortucchio, da Gioia e da Lecce dei Marsi, come dai paesi della sponda opposta, scendevano ogni giorno le masse di contadini a coltivare i 16 mila ettari prosciugati e resi intensamente produttivi. Lungo le innumerevoli nuove strade sorgevano centinaia di case coloniche e di stalle, che albergavano cinquemila capi di bestiame. Celano, Pescina, Paterno coltivavano sulle loro colline belle vigne e frutteti. San Benedetto, proprio sul margine del lago, dapprima misero villaggio di 500 abitanti, ne aveva oggi 4500. Avezzano che aveva circa tremila abitanti prima del prosciugamento del Fucino, ne contava oggi dodicimila, oltre alla popolazione fluttuante. Era cittadina linda, ariosa; aveva acqua potabile nelle case e luce elettrica. ‘Trovandosi l’acqua insufficiente, si era in procinto d’iniziare una derivazione dall’alto Liri, utilizzando una antica galleria traverso il monte Arunzo, opera romana che già probabilmente aveva servito all’uopo; essa avrebbe nel tragitto fornito forza elettrica e portato l’irrigazione nei campi Palentini fertili, ma asciutti. Una grande segheria lavorava le migliaia di pioppi che si schierano interminabili lungo i canali del Fucino e caratterizzano il singolare paesaggio. Un zuccherificio, il più potente d’Italia, ne sfruttava le succulente barbabietole (al momento del terremoto vi si trovava per due milioni di zucchero) : mulini, pastifici ne trattavano il grano (ventiquattromila quintali ne rimanevano nei granai Torlonia). E le fabbriche erano mosse coll’elettricità fornita dalle acque dell’emissario.

All’incrocio di antiche vie commerciali, in una grande pianura produttiva, Avezzano aveva sempre gente negli alberghi. Scuole e collegi vi attiravano gioventù dai dintorni. All’uopo era stato innalzato un grande edificio scolastico, con sale per refezione e bagni, non ancora inaugurato, e ora raso al suolo! 1Debbo queste notizie all’ing. Bultrini, che era l’animatore di tutte queste intraprese, fortunatamente scampato dal disastro perchè assente da Avezzano,

I territori di Scurcola, di Magliano e di Cappelle son tutti piantati a mandorli, a noci ed altri alberi da frutto, e fra gli alberi si seminano i cereali, che però non producono, se la primavera non porta la pioggia : a correggere tale aridità, un piano di bonifica stavasi iniziando.

Sui monti poi i numerosi paeselli, da Massa d’Albe a Ovindoli e a Gioia Vecchio, esercitavano l’industria armentizia e mandavano durante l’inverno migliaia di pecore a svernare nell’Agro Romano.Tale era la regione più intensamente battuta dal flagello, che ne distrusse completamente gli abitati e ne schiacciò in gran parte gli abitanti. Non illustre nel mondo, come altre nostre contrade sorrise dalla natura e dal genio, ma nobile di antichissima nobiltà, l’Abruzzo è tra le regioni che la nuova Italia ha lasciato nell’ombra. Le provincie adriatiche han progredito più velocemente, favorite dal clima e dal mare: l’interno è rimasto quasi ignorato e abbandonato a se stesso.

I monti hanno fino a ieri serbato all’Abruzzo centrale la sua personalità di razza e di storia. Le generazioni scomparendo lasciavano alle successive i segni modesti ma caratteristici del loro passaggio, le fortificazioni poligonie delle acropoli primitive, sulle quali si equilibrano i quadrati massi romani, e accanto a questi, chiese e castelli medievali: spesso queste strutture si sovrappongono in uno stesso edificio. Un’arte medievale derivata d’altrove, ma non priva di caratteristiche regionali, praticata certo da numerosi artisti dei luoghi, ha lasciato cospicui monumenti. I paesi collocati su altipiani oltre i mille metri ne son ricchi quasi quanto le belle conche del Fucino, di Sulmona e di Aquila. Questo carattere storico il terremoto l’ha pressochè cancellato nella Marsica, quasi per farle dimenticare un placido e chiuso passato e lanciarla verso la febbrile attività dell’agricoltura diventata industria.

Le popolazioni hanno serbato le loro superstizioni, ma anche la loro ingenuità, la dignità, il carattere. Insieme ai costumi esteriori, così pittoreschi, non sono scomparse le virtù interiori. La istruzione ch’essi reclamavano fortemente negli ultimi anni e che ottenevano coll’istituzione di sempre nuove scuole, lo spirito d’associazione che cominciava a riunire operai e contadini per la cooperazione e la mutualità, la stessa emigrazione che importava idee nuove e nuovi mezzi non li avevan resi esigenti, presuntuosi, impazienti.

Alba Fucens, chiesa di San Pietro, veduta dell’interno dopo il terremoto del 1915

Il disastro ha fortemente provato la terra e l’uomo, ma non li ha distrutti. La terra continua a germinare e a fruttificare, le acque dànno la forza motrice, le montagne sono sempre più debole impedimento ai traffici e agli scambi. L’uomo anela a rifarsi un focolare, un ambiente, una vita sociale sulla terra che ama. Aiutiamoli! Governo e privati concorrano alla resurrezione della Marsica. Ma senza viziare nè corrompere bambini e adulti, spesso così simili nei sentimenti quando sono disorientati, profughi, mantenuti nell’ozio forzato; senza fiaccare il loro carattere coll’elemosina, anzi eccitando il pronto risveglio delle loro energie e l’amore della loro terra. Provvisorio, ma confortevole nella rigidezza del clima sia il villaggio di legno che deve ospitarli mentre attenderanno a fondare più solidamente nel tempo la nuova convivenza civile. 

Si orientino essi, abbandonati i cocuzzoli dei monti, inabitabili, e portino le loro dimore là dove il lavoro e la speranza del benessere li solleciteranno. Poichè tutto è distrutto per miglia e miglia quadrate, essi si trovano nella condizione dei fondatori di città. Eseguisca il Governo le derivazioni d’acque, le bonifiche, le opere pubbliche già concesse. E gli italiani di tutte le regioni vadano a conoscere, a incuorare colla loro solidarietà lo sforzo dei superstiti. Aiutiamoli a fare da sè! 

Ma il compito di restaurare una regione così profondamente sconvolta non deve farci trascurare un problema che sorge dalla triste serie di disastri abbattutasi sull’Italia in questi decennî. ‘Terribili esperienze ci dimostrano che non dobbiamo più fidare sull’impiego di mezzi e di uomini addetti ad altre e ordinarie funzioni per crearli organi di una funzione specialissima ed eccezionale, che non si improvvisa, ma richiede una preparazione tanto più lunga e permanente, quanto più subitanea e imprevedibile scocca l’ora della sua necessità. 

Il terremoto è una guerra. Vi sono delle difese preventive, le abitazioni antisismiche: infatti v’ha chi dice che il problema è semplicemente un problema edilizio. Ma noi abbiamo troppe maravigliose città monumentali per immaginare che in un prossimo avvenire gl’italiani vi rinuncino per fabbricarsi delle città di legno; e intanto dobbiamo pure pensare alle sconfitte che questa guerra ci potrà ancora infliggere. Ormai quali regioni possono dichiararsi immuni? La guerra vuole una milizia. Per quello che è comune a questa come a tutte le guerre, l’assistenza ai vivi (la prima medicazione dei feriti, la spedalizzazione sul luogo per i non trasportabili, il trasporto ‘degli altri, l’alimentazione degli scampati) e il disseppellimento dei morti, l’esercito ha i suoi organi già pronti. È deplorevole soltanto che la mobilitazione di questi organi non sia avvenuta vasta e rapida sin dal primo giorno. Nè si dubiti d’impiegare i grandi mezzi da guerra, Reggio nel gennaio 1909 rimase isolata per tre giorni, — franate le vie ferrate, distrutto il porto — e molti paesi dell’Aspromonte non furono soccorsi che molti giorni dopo il disastro). Ciò non potrebbe più avvenire dopo i progressi dell’aviazione. 

Ma per il còmpito specifico, lo scavo delle macerie, la rimozione dei muri pericolanti, l’esercito non ha strumenti adatti nè operai specialisti. I pompieri di Bologna e di Roma, ad esempio, han potuto fare in pochi molto più che centinaia di fantaccini muniti di solidi badili, come si vedevano in tanti villaggi. ‘Tali specialisti sarebbero poi tutt’altro che inutili in guerra, dove l’artiglieria moderna terrestre e aerea, rivaleggia col terremoto nelle devastazioni. L’ideale della guerra moderna non è di creare dei cataclismi rapidi e intensi, perciò ciechi e pieni di strage, — per imporre la pace !? Questa milizia accorra sempre, supponendo il peggio, lieta, se la mobilitazione sarà stata vana. Essa occupi sin dal primo giorno tutte le case rovinate. E il lavoro non cessi la notte! Degli uomini appositamente esercitati veglino per l’auscultazione delle macerie 1

E poichè questa guerra infierisce su donne e bambini, le donne parteciperanno alla nuova milizia. Il loro concorso è necessario tanto per il salvataggio, quanto per la cura dei feriti, quanto per l’assistenza ai superstiti. Vi accorrano i volontari? Quanto sarebbero stati utili, ad esempio, nei primi due giorni, dei gruppi di ciclisti, di podisti, di alpinisti: al secondo giorno la regione sarebbe stata riconosciuta: tutta e frugata nelle sue valli e nei suoi monti, e i provvedimenti avviati rapidamente da tutte le zone circostanti. Tutti i centri importanti abbiano accanto alle Società di assistenza pubblica, dei gruppi facenti capo ad esse e all’ufficiale del presidio che sarà addetto a questo servizio di pubblici infortuni. Una specie di regime militare sia subito imposto alla regione colpita, il quale possa requisire sul luogo i mezzi utili, coordinare gli sforzi. Intanto sul posto qualche milite o qualche volontario, rimasto fra i superstiti, avrà già ricorso alle riserve di medicinali e di viveri conservate in locali asismici, avrà utilizzato gli uomini validi nei primi soccorsi. È vero quel che si dice dell’inerzia che accascia gli scampati dal terremoto, ma è anche vero l’opposto: le energie si esaltano, l’incuranza della propria vita dove infuria la morte suscita degli atti eroici. È notevole sopratutto che i militari — carabinieri, doganieri, semaforisti — si distinsero nel terremoto di Reggio e di Messina per prontezza ed energia nell’organizzare i primi salvataggi. ll senso della responsabilità sveglia la forza morale. Cesserà così lo spettacolo della inerzia di tanti uomini robusti che chiedono di esser mantenuti e ricoverati senza voler prestare una mano ai loro fratelli. Spesso essi non mancano che di un comando autorevole e fidato.

L’educazione moderna può facilmente preparare la gioventù a questo compito patriottico e sociale. Incominciando dalle scuole elementari, invece di una ginnastica a vuoto, s’insegnino gli atti della pubblica assistenza. I ragazzi esploratori, ora addestrati quasi soltanto alla vita militare, imparino questa nuova forma. Le società sportive preparino i loro membri a questo servizio sociale; ne saranno nobilitate. L’Italia, cui la natura è prodiga di meravigliosi doni e di tanti elementi di sventura, può dare all’umanità questo nuovo esempio, una nuova milizia che incarni un patriottismo, un eroismo profondamente umano, di fronte al quale la difesa materiale delle frontiere non è che il primo gradino.

Ritratto di Giovanni Cena (dettaglio) – Felice Carena – Galleria Nazionale d’Arte Moderna