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L’illustre estinto – Luigi Pirandello

Messo a sedere sul letto, perché l’asma non lo soffocasse, abbandonato su i guanciali ammontati, l’on. Costanzo Ramberti guardava, attraverso le gonfie palpebre semichiuse, il raggio di sole che, entrando dalla finestra, gli si stendeva su le gambe e indorava la calugine di uno scialle grigio, di lana, a quadri neri. Si sentiva morire; sapeva che per lui non c’era più rimedio, e se ne stava ormai tutto ristretto in sé, vietandosi anche d’allungare lo sguardo oltre le sponde del letto, nella camera, non già per raccogliersi nel pensiero della fine imminente, ma, al contrario, per timore che, allargando anche d’un po’ l’orizzonte al suo sguardo, la vista degli oggetti attorno lo richiamasse con qualche rimpianto alle relazioni che poteva avere ancora con la vita, e che la morte tra poco avrebbe spezzate. Raccolto, rimpiccolito entro quel limite angustissimo, si sentiva più sicuro, più riparato, quasi protetto. E, tutt’intento ad avvistar le minime cose, gli esilissimi fili arricciolati e indorati dal sole della calugine di quello scialle, assaporava la lunghezza del tempo, di tutto il suo tempo, che poteva essere di ore; o forse di qualche altro giorno; di due o di tre giorni; fors’anche – al più – d’una settimana. Ma se un minuto, tra quelle minuzie là, passava così lento, così lento, eh! avrebbe avuto anche il tempo di stancarsi – sì, proprio di stancarsi – in una settimana. Non avrebbe avuto mai fine, così, una settimana! La stanchezza però, che già egli avvertiva, non era a cagione di quell’eternarsi del tempo tra la peluria del suo scialle di lana: era effetto dello sforzo che faceva su se stesso per impedirsi di pensare. Ma a che voleva pensare, ormai? Alla sua morte? Piuttosto… ecco: poteva darsi a immaginare tutto ciò che sarebbe avvenuto dopo. Sì: sarebbe stato un modo anche questo d’impedire che, almeno al suo pensiero smarrito, privo d’ogni conforto di religione, la vita diventasse d’un tratto – fra breve – come niente; un modo di rimanere di qua ancora, per poco, innanzi a gli occhi degli altri, se non più innanzi ai suoi proprii. E – coraggiosamente – l’on. Costanzo Ramberti si vide morto, come gli altri lo avrebbero veduto; com’egli aveva veduto tanti altri: morto e duro, lì, su quel letto; coi piedi rattratti nelle scarpine di coppale; cereo in volto e gelido, le mani quasi sassificate; composto e… ma sì, elegante anche, nell’abito nero, tra tanti fiori sparsi lungo la persona e sul guanciale. La marsina doveva esser di là, nel baule; insieme con l’uniforme nuova, lo spadino e la feluca di ministro. Intanto, per far la prova, rattrasse i piedi e se li guatò. Sentì come una vellicazione al ventre; levò una mano e si lisciò sul capo i capelli; poi si strinse la barba rossiccia, spartita sul mento. Pensò che, morto, gli avrebbe pettinato quella barba e raffilato sul cranio quei pochi peli il suo segretario particolare, cav. Spigula-Nonnis, che da tanti giorni e tante notti lo assisteva, pover’uomo, con devoto affetto, senza lasciarlo solo neanche un momento, struggendosi, a piè del letto, di non potere in alcun modo alleviargli le sofferenze. Ma pure lo ajutava quel cav. Spigula-Nonnis, senza saperlo; lo ajutava a morire con dignità, filosoficamente. Forse, se fosse stato solo, si sarebbe messo a smaniare, a piangere, a gridare con disperata rabbia; col cav. Spigula-Nonnis lì a piè del letto, che lo chiamava «Eccellenza», non fiatava nemmeno: guardava fisso, attento, quasi meravigliato, innanzi a sé, con le labbra sfiorate da un leggero sorriso. Sì, la presenza di quell’uomo squallido, allampanato, miope, lo teneva per un filo, esilissimo ormai, su la scena, investito della sua parte, fino all’ultimo. L’esilità di questo filo gli esasperava internamente di punto in punto l’angoscia e il terrore, poich’egli non poteva non sentir vano, vano e disperato lo sforzo con cui tutta l’anima sua si aggrappava ad esso, simile in tutto a quello, cui tante volte aveva assistito con curiosità crudele, di qualche bestiolina agonizzante, d’un insetto caduto nell’acqua, appeso a un bioccolo, a un peluzzo natante. Tutte quelle cose, con le quali aveva riempito il vuoto, in cui davanti a gli occhi gli vaneggiava ora la vita, erano impersonate nel cav. Spigula-Nonnis: la sua autorità, il suo prestigio, cose vane che gli venivano meno, che non avevano più pregio, ma che tuttavia sul vuoto che tra poco lo avrebbe inghiottito campeggiavano come larve di sogno, parvenze di vita, che per poco ancora, dopo la sua morte, egli poteva prevedere si sarebbero agitate attorno a lui, attorno al suo letto, attorno alla sua bara. Quel cav. Spigula-Nonnis, dunque, lo avrebbe lavato, vestito e pettinato, amorosamente, ma pur con un certo ribrezzo. Ribrezzo provava anche lui, del resto, pensando che le sue carni, il suo corpo nudo sarebbe stato toccato dalle grosse mani ossute e visto da quell’uomo lì. Ma non aveva altri accanto: nessun parente, né prossimo, né lontano: moriva solo, com’era sempre vissuto; solo, in quell’amena villetta di Castel Gandolfo presa in affitto con la speranza che, dopo due o tre mesi di riposo, si sarebbe rimesso in salute. Aveva appena quarantacinque anni! Ma s’era ucciso lui, bestialmente, con le sue mani; se l’era troncata lui l’esistenza, a furia di lavoro e di lotta testarda, accanita. E quando alla fine era riuscito a strappar la vittoria, aveva la morte dentro, la morte, la morte che gli s’era insinuata da un pezzo nel corpo, di soppiatto. Quand’era andato dal Re a prestare il giuramento; quando, con un’aria di afflitta rassegnazione, ma in cuore tutto ridente, aveva ricevuto le congratulazioni dei colleghi e degli amici, aveva la morte dentro e non lo sapeva. Due mesi addietro, di sera, essa gli aveva allungato all’improvviso una strizzatina al cuore e lo aveva lasciato boccheggiante, col capo riverso su la sua scrivania di ministro al palazzo dei lavori pubblici. Tutti i giornali d’opposizione, che avevano tanto malignato su la sua nomina, qualificandola favoritismo sfacciato del presidente del Consiglio, ora, nel dare l’annunzio della sua morte immatura, avrebbero forse tenuto conto de’ suoi meriti, de’ suoi studii lunghi e pazienti, della sua passione costante, unica, assorbente, per la vita pubblica, dello zelo che aveva posto sempre nell’adempimento de’ suoi doveri di deputato prima, di ministro poi, per poco. Eh, sì! Si possono dare di queste consolazioni a uno che se n’è andato: e tanto più poi, in quanto che l’amicizia, la famosa protezione del presidente del Consiglio non erano arrivate fino al punto di concedergli quell’altra di morire almeno da ministro. Subito dopo quella sincope gli s’era lasciato intendere con bella maniera che sarebbe stato opportuno – oh, soltanto per riguardo alla sua salute, non per altro – lasciare il portafoglio. Cosicché, neanche per i giornali amici del Ministero la sua morte sarebbe stata «un vero lutto nazionale». Ma sarebbe stato a ogni modo per tutti «un illustre estinto»: questo sì, senza dubbio. E tutti avrebbero rimpianto la sua «esistenza innanzi tempo spezzata», che «certamente altri nobili servigi avrebbe potuto rendere ancora alla patria», ecc., ecc. Forse, data la vicinanza e dato il breve tempo trascorso dalla sua uscita dal Ministero, S.E. il presidente del Consiglio e i ministri già suoi colleghi e i sotto-segretarii di Stato e i molti deputati amici sarebbero venuti da Roma a vederlo morto, lì, in quella camera, che il sindaco del paese, per farsi onore, con l’aiuto del cav. Spigula-Nonnis, avrebbe trasformato in cappella ardente, con cassoni di lauro e altre piante e fiori e candelabri. Sarebbero entrati tutti a capo scoperto, col presidente del Consiglio in testa; lo avrebbero contemplato un pezzo, muti, costernati, pallidi, con quella curiosità trattenuta dall’orrore istintivo, che tante volte egli stesso aveva provato davanti ad altri morti. Momento solenne e commovente. – «Povero Ramberti!» E tutti si sarebbero quindi ritirati di là ad aspettare ch’egli fosse chiuso nella cassa già pronta. Valdana, la sua città natale, Valdana che da quindici anni lo rieleggeva deputato, Valdana per cui aveva fatto tanto, avrebbe certamente voluto le sue spoglie mortali; e il sindaco di Valdana sarebbe accorso con due o tre consiglieri comunali per accompagnare la salma. L’anima… eh, l’anima, partita da un pezzo, e chi sa dove arrivata… – L’on. Costanzo Ramberti strizzò gli occhi. Volle ricordarsi d’una vecchia definizione dell’anima, che lo aveva molto soddisfatto, quand’era ancora studente di filosofia all’Università: «L’anima è quell’essenza che si rende in noi cosciente di se stessa e delle cose poste fuori di noi». Già! Così… Era la definizione d’un filosofo tedesco. «Quell’essenza?» pensò adesso. «Che vuol dire? Quella certa cosa “che è”, innegabilmente, per la quale io, mentre sono vivo, differisco da me quando sarò morto. È chiaro! Ma questa essenza dentro di me è per se stessa o in quanto io sono? Due casi. Se è per sé, e soltanto dentro di me si rende cosciente di se stessa, fuori di me non avrà più coscienza? E che sarà dunque? Qualche cosa che io non sono, che essa medesima non è, finché mi rimane dentro. Andata fuori, sarà quel che sarà… seppure sarà! Perché c’è l’altro caso: che essa cioè sia in quanto io sono; sicché, dunque, non essendo più io…» – Cavaliere, per favore, un sorso d’acqua… Il cav. Spigula-Nonnis balzò in piedi quant’era lungo, riscotendosi dal torpore; gli porse l’acqua; gli chiese premuroso:

– Eccellenza, come si sente?
L’on. Costanzo Ramberti bevve due sorsi: poi, restituendo il bicchiere, sorrise pallidamente al suo segretario, richiuse gli occhi, sospirò:

– Così…

Dov’era arrivato? Doveva partire per Valdana. La salma… Sì, meglio tenersi alla salma soltanto. Ecco: la prendevano per la testa e per i piedi. Nella cassa era già deposto un lenzuolo zuppo d’acqua sublimata, nel quale la salma sarebbe stata avvolta. Poi lo stagnaio… Come si chiamava quello strumento rombante con una livida lingua di fuoco? Ecco la lastra di zinco da saldare su la cassa; ecco il coperchio da avvitare… A questo punto, l’on. Costanzo Ramberti non vide più se stesso dentro la cassa: rimase fuori e vide la cassa, come gli altri la avrebbero veduta: una bella cassa di castagno, in forma d’urna, levigata, con borchie dorate. I funerali e il trasporto sarebbero stati certamente a spese dello Stato. E la cassa, ecco, era sollevata: attraversava le camere, scendeva stentatamente le scale della villetta, attraversava il giardino, seguita da tutti i colleghi di nuovo a capo scoperto col presidente del Consiglio innanzi a tutti; era introdotta nel carro del Municipio tra la curiosità timorosa e rispettosa di tutta la popolazione accorsa allo spettacolo insolito. Qui ancora l’on. Ramberti lasciò cacciar dentro del carro la cassa e rimase fuori a vedere il carro che, accompagnato da tanto popolo, scendeva lentamente, con solennità, dal borgo alla stazione ferroviaria. Un vagone di quelli con la scritta Cavalli 8, Uomini 40, era bell’e pronto, con le assi inchiodate per chiudervi il feretro. L’on. Costanzo Ramberti rivide la propria cassa tratta fuori del carro e la seguì entro il vagone nudo e polveroso, che certamente a Roma sarebbe stato addobbato e parato con tutte le corone che il Re e il Consiglio dei ministri, il Municipio di Valdana e gli amici avrebbero inviato. Partenza! E l’on. Costanzo Ramberti seguì il treno, col suo carro-feretro in coda, per tanta e tanta via, fino alla stazione di Valdana, gremita anch’essa di popolo. Ecco, a uno a uno, i suoi più fedeli e affezionati amici, consiglieri provinciali e comunali, alcuni un po’ goffi nell’insolito abito nero o col cappello a staio. Il Robertelli… eh, sì!… lui sì… caro Robertelli… piangeva, si faceva largo…

– Dov’è? dov’è?

Dove poteva essere? Là, nella cassa, caro Robertelli. Eh, uno alla volta… Ma l’on. Costanzo Ramberti vedeva quella scena, come se egli veramente non fosse dentro la cassa, che pur pesava, sì, sì, pesava e lo dimostravano chiaramente gli uscieri del Municipio in guanti bianchi e livrea, che stentavano a caricarsela sulle spalle. Vedeva… uh, il Tonni, che ogni volta, poveretto, usciva di casa coi minuti contati dalla moglie ferocemente gelosa – eccolo lì, irrequieto, sbuffava, cavava fuori ogni momento l’orologio, maledicendo al ritardo di un’ora con cui il treno era arrivato, e a cui certo la moglie non avrebbe creduto. Eh, pazienza, caro Tonni, pazienza! Avrai dalla moglie una scenata; ma poi ti rappacificherai. Rimani vivo, tu. All’altro mondo, invece, non si rivà due volte. Vorresti per l’amico tuo, che pur ti fece tanti favori, un funerale spiccio spiccio? Lasciaglielo fare con pompa e solennità… Vedi? ecco il signor prefetto… Largo, largo! Uh, c’è anche il colonnello… Ma già! gli toccava anche l’accompagnamento militare. E c’è anche tutta la scolaresca, con le bandiere dei vari istituti; e quant’altre bandiere di sodalizi! Sì, perché egli veramente pur tutto inteso ai problemi più alti della politica, alle questioni più ardue dell’economia sociale, non aveva mai trascurato gl’interessi particolari del collegio, che di molti benefici doveva essergli grato a lungo. E Valdana forse gli avrebbe dimostrato questa gratitudine con qualche ricordo marmoreo nella villa comunale o intitolando dal nome di lui qualche via o qualche piazza; e, intanto, con quelle esequie solenni… Rivide col pensiero la via principale della città tutta imbandierata a mezz’asta:

VIA COSTANZO RAMBERTI

E le finestre gremite di gente in attesa del carro tirato da otto cavalli bardati, coperto di corone; e tanti per via che si mostravano a dito quella del Re, bellissima fra tutte. Il cimitero era laggiù, dietro il colle, fosco e solitario. I cavalli andavano a passo lento, quasi per dargli il tempo di godere di quegli estremi onori che gli si rendevano e che gli prolungavano d’un breve tratto ancora la vita oltre la fine…

Tutto questo l’on. Costanzo Ramberti immaginò alla vigilia della morte. Un po’ per colpa sua, un po’ per colpa d’altri, la realtà non corrispose interamente a quanto egli aveva immaginato. Già morì di notte, non si sa se durante il sonno; certo senza farsi sentire dal cav. Spigula-Nonnis che, vinto dalla stanchezza, s’era profondamente addormentato sulla poltrona a piè del letto. Questo sarebbe stato poco male, in fondo, se il cav. Spigula-Nonnis, svegliandosi di soprassalto verso le quattro del mattino e trovandolo già freddo e duro, non fosse rimasto straordinariamente impressionato, prima da uno strano ronzio nella camera, poi dalla luna piena, che, nel declinare, pareva si fosse arrestata in cielo a mirare quel morto sul letto, attraverso i vetri della finestra rimasta per inavvertenza con gli scuri aperti. Il ronzio era d’un moscone, a cui egli col suo destarsi improvviso aveva rotto il sonno. Quando, all’alba, accorse il sindaco Agostino Migneco, chiamato in fretta in furia dal cameriere, il cav. Spigula-Nonnis:

– C’era la luna… c’era la luna… Non sapeva dir altro.

– La luna? che luna?

– Una luna!… una luna!…

– Va bene, c’era la luna… ma, caro signore, qua bisogna spedire un telegramma d’urgenza a S.E. il presidente della Camera; un altro a S.E. il presidente del Consiglio; un altro al sindaco di… di dov’era deputato Sua Eccellenza?

– Valdana… (Che luna!)

– Lasci stare la luna! Dunque al sindaco di Valdana, si dice: e tre, tutti d’urgenza: per dar l’infausto annunzio alla cittadinanza, mi spiego? a gli elettori… Avrà da fare quel sindaco! Si sbrighi, per carità! Bisognerà fare aprire l’ufficio telegrafico: si faccia accompagnare da una guardia, a nome mio. E poi subito qua! Bisognerà vestirlo al più presto. Vede? il cadavere è già irrigidito.

Per miracolo il cav. Spigula-Nonnis non mise in tutti quei telegrammi, che c’era la luna. Davvero, per farsi onore, il sindaco Migneco avrebbe voluto metter su una camera ardente da far restare tutti a bocca aperta, col catafalco e ogni cosa. Ma… paesetti; non si trovava nulla; mancavano i bravi operai. Era corso in chiesa per qualche paramento. Tutti damaschi rossi a strisce d’oro. Fossero stati neri! Prese quattro candelabri dorati, roba del mille e uno… Fiori, sì, e piante: fiori per terra, fiori sul letto: tutta la camera piena. La marsina intanto non si trovò nel baule, e il cav. Spigula-Nonnis fu costretto a correre a Roma, nel quartierino in via Ludovisi; ma non la trovò neanche là: era nel baule, era, giù in fondo. Se aveva proprio perduto la testa quel pover’uomo! Oh, affezionatissimo… Lagrime a fontana. Ma la marsina si dovette spaccare in due, di dietro (peccato, nuova nuova!) perché le braccia del cadavere non si movevano più. E, appena vestito, sissignori, si dovette rispogliare e poi rivestire daccapo, perché dal Municipio di Valdana (questo sì, come l’on. Costanzo Ramberti aveva immaginato) giunse un telegramma d’urgenza, nel quale si annunziava che la cittadinanza addoloratissima con voto unanime reclamava la salma del suo illustre rappresentante per onorarla con esequie solenni: monumento… anche un monumento! cose grandi, e sì, proprio una piazza, quella della Posta, ribattezzata col nome di lui – e un medico arrivò a Roma per praticare al cadavere alcune iniezioni di formalina, diceva; «sformalina» avrebbe detto invece il sindaco Migneco, col dovuto rispetto, perché, dopo quelle iniezioni… – oh, il volto cereo, l’eleganza con cui si era rappresentato da morto l’on. Costanzo Ramberti! Un faccione così gli fecero, senza più né naso, né guance, né collo, né nulla; una palla di sego, ecco. Tanto che si pensò di nascondergli il volto con un fazzoletto. Molti più deputati amici, di quanto l’on. Costanzo Ramberti sapesse d’averne, accorsero la mattina seguente a Castel Gandolfo, insieme coi presidenti della Camera e del Consiglio e i ministri e i sotto-segretarii di Stato. Vennero anche alcuni senatori, tra i meno vecchi, e una frotta di giornalisti e anche due fotografi. Era una splendida giornata. A gente oppressa da tanti gravi problemi sociali, intristita da tante brighe quotidiane, doveva certo far l’effetto d’una festa quel tuffo nell’azzurro, la vista deliziosa della campagna rinverdita, dei Castelli romani solatii, del lago e dei boschi in quell’aria ancora un po’ frizzante, ma nella quale si presentiva già l’alito della primavera. Non lo dicevano; si mostravano anzi compunti, ed erano forse; ma per il segreto rammarico d’aver consumato e di consumare tuttavia in lotte vane e meschine l’esistenza così breve, così poco sicura, e che pur sentivano cara, lì, in quella fresca, ariosa apparizione incantevole. Un certo conforto veniva loro dal pensiero che essi ne potevano godere ancora, pur fuggevolmente, mentre quel loro compagno, no. E così confortati, in fatti, a poco a poco, durante il breve tragitto cominciarono a conversare lietamente, a ridere, grati a quei cinque o sei più sinceri, che per i primi avevano rotto l’aria di compunzione con qualche frizzo e ora seguitavano a far da buffoni. Pure, di tratto in tratto, come se dagli usciolini delle vetture intercomunicanti si affacciasse la testa di Costanzo Ramberti, le conversazioni gaie e le risate cadevano; e avvertivano tutti quasi uno smarrimento, un disagio impiccioso, segnatamente coloro che non avevano proprio alcuna ragione di trovarsi lì, tranne quella di fare una gita in larga compagnia, notoriamente avversari del Ramberti o denigratori di lui in segreto. Avvertivano costoro che la loro presenza violentava qualche cosa. Che cosa? l’aspettazione del morto, l’aspettazione d’uno che non poteva più protestare e cacciarli via, svergognandoli? Ma era, sì o no, una visita funebre, quella? Se era, via! un morto non si va a visitarlo così, chiacchierando allegramente e ridendo. Tutti quei colleghi là, amici e non amici, ignoravano la rappresentazione che il povero Ramberti si era fatta, alla vigilia della morte, di quella loro visita, naturalmente secondo il carattere che essa avrebbe dovuto avere, di tristezza, di rimpianto, di commiserazione per lui. La ignoravano; e tuttavia, per il solo fatto che essa ora si effettuava, non potevano non avvertire di tratto in tratto, che era sconveniente il modo con cui si effettuava; e i non amici non potevano non avvertire che essi vi erano di più, e che commettevano una violenza. Appena scesi alla stazione di Castel Gandolfo tutti però si ricomposero, riassunsero l’aria grave e compunta, si vestirono della solennità del momento luttuoso, dell’importanza che dava loro la folla rispettosa, accorsa per assistere all’arrivo. Guidati dal sindaco Migneco e dai consiglieri comunali, affocati in volto, tutti in sudore, coi polsini che scappavan fuori dalle maniche e il giro delle cravatte dai colletti, ministri e deputati si recarono a piedi, in colonna, coi due presidenti in testa, fra due ali e un codazzo enorme di popolo, alla villa del Ramberti. Quest’arrivo, questa entrata nel paese imbandierato a lutto, questo corteo, furono realmente di gran lunga superiori a quanto il Ramberti aveva immaginato. Se non che, proprio nel momento più solenne, allorché il presidente della Camera e quello del Consiglio con tutti i ministri e i sotto-segretari e i deputati e la folla dei curiosi entrarono nella camera ardente, a capo scoperto, accadde una cosa che l’on. Ramberti non si sarebbe potuto mai immaginare: una cosa orribile, nel silenzio quasi sacro di quella scena: un improvviso borboglio lugubre, squacquerato, nel ventre del cadavere, che intronò e atterrì tutti gli astanti. Che era stato?

Digestio post mortem, – sospirò, dignitosamente in latino, uno di essi, ch’era medico, appena poté rimettersi un po’ di fiato in corpo. E tutti gli altri guatarono sconcertati il cadavere, che pareva si fosse coperto il volto col fazzoletto, per fare, senza vergogna, una tal cosa in faccia alle supreme autorità della nazione. E uscirono, gravemente accigliati, dalla camera ardente. Quando, tre ore dopo, alla stazione di Roma, il cav. Spigula-Nonnis, vide con infinita tristezza allontanarsi tutti coloro che erano venuti a Castel Gandolfo, senza volgere nemmeno uno sguardo, un ultimo sguardo d’addio al carro, ove S.E. l’on. Ramberti era chiuso, ebbe l’impressione d’un tradimento. Era tutto finito così? E restò, lui solo, nell’incerto, afflitto lume del giorno morente, sotto l’alto, immenso lucernario affumicato, a seguire con gli occhi le manovre del treno, che si scomponeva. Dopo molte evoluzioni su per le linee intricate, vide alla fine quel carro lasciato in capo a un binario, in fondo, accanto a un altro, su cui già era incollato un cartellino con la scritta Feretro. Un vecchio facchino della stazione, mezzo sciancato e asmatico, venne col pentolino della colla ad attaccare anche sul carro dell’on. Ramberti lo stesso cartellino, e se ne andò. Il cav. Spigula-Nonnis si accostò per leggerlo con gli occhi miopi: lesse più su: «Cavalli 8, Uomini 40» e scrollò il capo e sospirò. Stette ancora un pezzo, un lungo pezzo a contemplare quei due carri-feretro lì accanto. Due morti, due già andati, che dovevano ancora viaggiare! E sarebbero rimasti lì, soli, quella notte, tra il frastuono dei treni in arrivo e in partenza, tra l’andar frettoloso dei viaggiatori notturni; lì stesi, immobili, nel buio delle loro casse, fra il tramenio incessante d’una stazione ferroviaria. Addio! addio! E anche lui, il cav. Spigula-Nonnis, se ne andò. Se ne andò angosciato. Per via però, comperati i giornali della sera, si riconfortò nel vedere le lunghe necrologie, che tutti recavano in prima pagina, col ritratto dell’illustre estinto in mezzo. A casa, s’immerse nella lettura di esse, e si commosse molto al cenno, che uno di quei giornali faceva, delle cure, dell’amorosa assistenza, della devozione, di cui egli, il cav. Spigula-Nonnis, aveva circondato in quegli ultimi mesi l’on. Costanzo Ramberti. Peccato che il Nonnis del suo cognome fosse stampato con un’«enne» sola! Ma si capiva ch’era lui. Rilesse quel cenno, a dir poco, una ventina di volte; e, ridisceso su la via, per recarsi a cenare alla solita pensione, volle prima di tutto comperare in un’edicola altre dieci copie di quel giornale, per mandarle a Novara, il giorno appresso, ai parenti, a gli amici, con l’«enne» aggiunta, s’intende, e il passo segnato con un tratto di lapis turchino. Grandi elogi, grandi elogi facevano tutti dell’on. Costanzo Ramberti: il compianto era unanime, e debitamente erano messi in rilievo i meriti, lo zelo, l’onestà. Tutto, come l’on. Costanzo Ramberti s’era figurato. C’era «l’esistenza innanzi tempo spezzata» e c’erano «i grandi servigi che certamente egli avrebbe potuto rendere ancora alla patria». E i telegrammi di Valdana parlavano della profonda costernazione della cittadinanza al ferale annunzio, delle straordinarie, indimenticabili onoranze che la città natale avrebbe fatto al suo Grande Figlio, e annunziavano che già il sindaco, una rappresentanza del Consiglio comunale e altri egregi cittadini, devoti amici dell’illustre estinto, erano partiti alla volta di Roma per scortare il cadavere. Rincasando verso la mezzanotte, nel silenzio delle vie deserte, vegliate lugubremente dai lampioni, il cav. Spigula-Nonnis ripensò ai due carri-feretro là in capo a un binario della stazione, in attesa. Se quei due morti avessero potuto farsi compagnia, conversando tra loro, per ingannare il tempo! Sorrise mestamente, a questo pensiero, il cav. SpigulaNonnis.

Chi sa chi era quell’altro, e dove sarebbe andato a finire… Stava lì, quella notte, senza alcun sospetto dell’onore che gli toccava, d’avere accanto uno che riempiva di sé, in quel momento, tutti i giornali d’Italia, e che il giorno appresso avrebbe avuto accoglienze trionfali da tutta una città che lo piangeva. Poteva mai passare per il capo ai cav. Spigula-Nonnis, che il carro-feretro dell’on. Costanzo Ramberti, verso le due, da alcuni ferrovieri cascanti a pezzi dal sonno dovesse essere agganciato al treno che partiva in quell’ora per l’Abruzzo, e che l’illustre estinto dovesse così essere sottratto alle accoglienze trionfali, alle onoranze solenni della sua città natale? Ma l’on. Costanzo Ramberti, uomo politico, già salito al potere, addentro perciò «nelle segrete cose», l’on. Costanzo Ramberti che conosceva tutte le magagne del servizio ferroviario, avrebbe potuto prevedere facilmente un simile tradimento. Dati due carriferetro in attesa in una stazione di tanto traffico, niente di più facile e di più ovvio, che uno fosse spedito al destino dell’altro, e viceversa. Chiuso, inchiodato lì nel suo carro, ora, egli non poté protestare contro quello scambio indegno, allo strappo che sei facchini bestiali facevano in quel momento di tutte le gramaglie, di cui la sua Valdana si parava quella notte, per accoglierlo solennemente il giorno appresso. E in coda a quel treno che partiva per l’Abruzzo, quasi vuoto, e che, coi freni logori, finiva di sconquassare le povere, vecchie, sporche vetture di cui era composto, gli toccò a viaggiare per tutto il resto della notte, via lentamente, via lugubremente, verso la destinazione di quell’altro morto, ch’era un giovine seminarista di Avezzano, per nome Feliciangiolo Scanalino. Naturalmente, il carro feretro di questo, la mattina dopo, fu adornato con magnificenza, sotto la vigilanza dello stesso capo della casa di pompe funebri, che si era assunto l’incarico del funerale a spese dello Stato. Paramenti ricchissimi di velluto con frange d’argento, a padiglione, e veli e nastri e palme! Sul feretro, coperto da una splendida coltre, la sola corona del Re; ai due lati, quelle dei presidenti della Camera e del Consiglio dei ministri. Circa una settantina di altre corone furono allogate nel carro appresso. E alle otto e mezzo precise innanzi a gli occhi ammirati d’una vera folla d’amici dell’on. Costanzo Ramberti, Feliciangiolo Scanalino partì verso le onoranze solenni di Valdana. Quando, verso le tre del pomeriggio, il treno arrivò alla stazione di Valdana, rigurgitante di popolo commosso, il sindaco, che aveva accompagnato la salma con la rappresentanza comunale, fu chiamato misteriosamente in disparte, nella sala del telegrafo, dal capostazione, che tremava tutto, pallidissimo. Era arrivato dalla stazione di Roma un telegramma, che avvertiva in gran segreto dello scambio dei vagoni mortuarii. La salma dell’on. Ramberti si trovava alla stazione d’Avezzano. Il sindaco di Valdana restò come basito. E come si faceva adesso con tutto il popolo lì in attesa? con la città parata? – Commendatore, – suggerì sottovoce il capostazione, ponendosi una mano sul petto, – lo so io solo e il telegrafista, qua; anche a Roma e ad Avezzano, il capo-stazione e il telegrafista. Commendatore, è interesse nostro, dell’Amministrazione ferroviaria, tener segreta la cosa. Si affidi! Che altro si poteva fare in un frangente come quello? E l’innocente seminarista Feliciangiolo Scanalino ebbe le accoglienze trionfali della città di Valdana, nel carro funebre che pareva una montagna di fiori, tirato da otto cavalli; ebbe la corona del Re; ebbe l’elogio funebre del sindaco, ebbe l’accompagnamento di tutto un popolo fino al cimitero. L’on. Costanzo Ramberti viaggiava frattanto, da Avezzano, nel carro nudo e polveroso Cavalli 8, Uomini 40, senza un fiore, senza un nastro: povera spoglia rimandata via, sballottata fuori di strada, per luoghi così lontani dal suo destino. Arrivò di notte alla stazione di Valdana. Il solo sindaco e quattro fidati beccamorti erano ad aspettarla alla stazione, e zitti zitti, col passo dei ladri che sottraggono alla vista dei doganieri un contrabbando, su e giù per viottoli di campagna stenebrati a malapena da un lanternino, se la portarono al camposanto e la seppellirono, traendo un gran sospiro di sollievo.

Prima pubblicazione ne La lettura, rivista mensile del Corriere della Sera, novembre 1909. L’illustrazione proviene dalla rivista, consultabile qui.