Virgilia D’Andrea – Rievocazioni sul Terremoto d’Abruzzo del 1915
Virgilia Anna Michelina D’Andrea era nata l’11 febbraio 1888 a Sulmona (Aq).
Ancora adolescente, passa da una tragedia all’altra. Rimasta orfana della madre, dopo qualche anno il padre – che si era risposato – viene ucciso dal rivale in amore, insieme con i suoi due bambini e sotto gli occhi della figlia. A sei anni Virgilia viene rinchiusa in un collegio di suore, forse nella stessa Sulmona, dove rimane fino alla maggiore età.
Alle soglie della prima guerra mondiale, Virgilia è fra i partecipanti a numerose dimostrazioni e iniziative antimilitariste per cui entra in contatto con molti anarchici abruzzesi. Il riformista di sinistra Mario Trozzi nel 1917 le fa conoscere l’anarco-sindacalista Armando Borghi, confinato in Abruzzo. Questo incontro è fondamentale nella vita di Virginia e di Armando in quanto i due a breve diverranno inseparabili compagni di vita e di fede politica. Da quel momento la giovane Virgilia si diede interamente alla propaganda dell’ideale anarchico, tenendo conferenze in tutta la penisola, scrivendo articoli e poesie cariche di fede e amore per l’umanità.
Giuseppe Galzerano
Il racconto che segue è il suo ricordo del Terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915, contenuto nel libro “Torce nella notte” (1933) scritto in esilio a New York.
(Rievocazioni sul terremoto di Abruzzo del Gennaio 1915, risvegliate dal disastro in Basilicata nel 1930).
Il villaggio si era tutto raccolto e nascosto sotto la neve, che cadeva con insistenza dal mattino.Quietudine e silenzio…
Non un passante: non una voce: non il rintocco d’una campana. Solo, a lunghi intervalli, l’abbaiare lontano di qualche cane, e attraverso le finestre d’ogni casa, il riflesso d’un lume o la fiamma del focolare.
Maria Filippa venne a dirmi, come d’abitudine: Buona notte, Maestra.
Ma quel “buona notte” era un pretesto: la donna voleva essere ben certa che io non mancassi di nulla. Sollevò le lenzuola per dare uno sguardo allo scaldaletto: scoprì la brocca ricolma di acqua: aprì il cassettone per riporvi ancora della biancheria odorosa, lavata nel torrente ed asciugata al sole.
– Vedete, io le dissi, indicandole il lume: è agli sgoccioli. Volete versarvi del petrolio?
– Se fossi pazza, sì; se fossi pazza sì che lo farei, rispose la donna mettendosi le mani sui fianchi. Ma Maria Filippa ti vuol bene, e non ti darà più neppure una goccia di petrolio questa sera… neppure una goccia… neppure una lacrima.
Io la guardai meravigliata e la interrogai con lo sguardo.
– Perché è mezzanotte, ed è ora di dormire. Poi gettando alla sfuggita uno sguardo diffidente al tavolino ingombro di carte e di libri, riprese, incoraggiata dal mio silenzio.
– Vuoi che io ti lasci perdere gli occhi su quei libracci? I quali ti fanno diventare sempre più triste, sempre più buia? Vuoi tu dirmi che cosa vi è scritto su quelle pagine maledette?
– Tante cose belle e tante cose vere, Maria Filippa … Se voi sapeste leggere!
La donna si fece un frettoloso segno di croce, quasi io le avessi detto una eresia.
– Io leggere? Ma che ti frulla per la mente? Ai nostri tempi erano tenuti ben lontano da noi i caratteri stampati… e così i giovani non perdevano il santo timor di Dio e si toglievano, con riverenza, il cappello davanti al parroco buon’anima… e le donne… e le donne non poteva- no commettere il peccataccio di scrivere una lettera all’innamorato. Ai nostri tempi, maestra, si pensava a cose oneste, ti dico: si imparava a filare, a tessere, a fare il punto a croce… e intanto si veniva su dritte, forti, sane e… poi si andava a marito… si andava.
La sua voce si era fatta leggermente commossa. Forse, d’un tratto, era passata, davanti al suo sguardo, una giovinezza di salute e di vigore, carica di sogni e di promesse, felice e canora fra quella corona di monti, di torrenti e di boschi. Adesso era al declivio quel bel viso dal profilo severo e dagli occhi grandi e profondi, che leggermente obliqui e un poco beffardi avevano dovuto dargli un giorno, un fascino strano e maliardo di falchetto ardito e selvaggio. Il fazzoletto candido, orlato di pizzo, ripiegato a destra ed a sinistra sulla testa, lasciava intravedere una chioma corvina, maculata qua e là da qualche filo d’argento. La gonna corta e ripresa in alto in fitte e profonde pieghe le arrotondava i fianchi, e sopra al corpetto di broccato, il busto di velluto, in rabeschi d’oro, d’argento e di seta, le ingrandiva il petto e assottigliava la vita.
– Si andava a marito… si andava… ella riprese, quasi parlando a se stessa, forse riafferrata dal flutto delle memorie. Ma io non raccolsi quel suo cenno di rimpianto come, del resto, non avevo ribattuto sillaba a quella sua tirata bonaria e petulante.
Dentro di me andavano martellando alcuni versi con insistenza ed io, avendo gran fretta di fermarli sulla carta, ero un poco impaziente ed altro non vedevo e non desideravo, in quel momento, che mezzo litro di petrolio per alimentare il lume.
– Insomma, Maria Filippa, le dissi, guardandola fissa negli occhi, con quell’aria di dolente severità che aveva il dono di paralizzarle di colpo la lingua, io ho bisogno di lavorare ancora.
Ella si convinse e si mosse.
Allora presa nell’impeto della ispirazione poetica – come giovane ero e come ardente! – continuai ad alta voce, andando su e giù per la stanza:
Canta, frate mio grillo, in mezzo al verde;
Ma non t’ascolta no, l’umana gente!
Il rumore degli zoccoli pesanti si arrestò d’un tratto, e dal vano della porta, la donna domandò sbalordita: Ma dove vuoi che io possa pescartelo un grillo? Proprio un
grillo tu vuoi, benedetta?
– Ma no… ma no… è una poesia, mia buona mamma Filippa: è una poesia che sarà una bellezza…
Ma quella bocca aperta, quello sguardo spalancato, quel suo viso pieno di stupore, di ammirazione, di compassione nello stesso tempo, mi dettero un momento di
sincera ilarità… e risi davvero di cuore.
– Madonna santa del Carmine, andava ripetendo la donna, lungo le scale, madonna santa del Carmine, essa ride. Perché tu, povera donna ignorante, l’avrai detta grossa; ma benedetta sia la tua lingua se è riuscita a far ridere questa nostra figliuola.
Silenzio, sogni e chimere…
La neve aveva cessato di cadere. Il cielo era pieno di piccole pallide stelle. Un’aria strana, calda ed afosa, sollevatasi nel cuore di quella rigida notte invernale, faceva pensare ad un incantesimo meraviglioso. Il respiro del deserto fra le gole e le vette delle montagne. Pace, dolcezza e memorie…
Nella stanza il profumo sano ed agreste dello spiganardo dava un senso di benessere, d’intimità e di mistero. E dalla cucina, carica di rame scintillante, che doveva il suo color d’oro alle cure assidue di Maria Filippa, veniva su, a ondate salutari, l’odore del pane da poco sfornato, l’odore buono del pane da poco benedetto, e gelosamente rinchiuso nella madia.
Una scossa formidabile: un traballare spaventoso della casa: lo squarciarsi ed il rinchiudersi delle mura: tragiche voci, rauche di disperazione, invocare Sant’Emidio: e poi, su di me, lo sfasciarsi ed il crollare della vòlta a crociera: infine il silenzio e l’immobilità del sepolcro. Provai io, a quell’improvviso, folle e cieco furore della terra, provai io lo spavento disperato della morte?
Certo, nella più nascosta e profonda intimità dell’essere nostro, deve tenersi celata una sconosciuta energia, che viene d’improvviso a galla, a difenderci ed a sostenerci in quell’ora suprema. Se non fosse così l’umanità dovrebbe morire mordendosi le mani. Invece sul placido volto dei morti è uno sfinimento d’essere in pace e in riposo, che fa pensare ad un quieto lago tranquillo, fatatosi di incanto, davanti al sole, nella sua ora più bella d’estasi, di sogno e d’amore. Ed invero io, che pur nel ritmo normale della vita, non posso ancora guardare, con rassegnazione serena, questa realtà ineluttabile – la morte – invero io, tutte le volte che poi l’ho incontrata lungo il mio cammino, non ho avuto né rimpianto, né angoscia, né disperazione. Ho detto solo a fior di labbro, non so a chi… forse a tutto l’universo, due semplici parole: “È finita” così… come se avessi chiuso un libro sulla sua ultima pagina. Forse è la grandezza dell’inevitabile… forse è l’eterna caduta di tutte le illusioni… forse è l’amore per l’umanità, che ci lasciano accettare, ad animo tranquillo, come logica cosa, questo tremendo mistero, che, veduto da lontano, ci turba e ci sconvolge… Raggomitolata sotto i mattoni e i calcinacci, imponendomi l’immobilità più assoluta, trattenendo perfino il respiro, io avevo atteso, e non senza emozione, la replica della scossa.
Poi avevo cominciato a dare un assetto alle idee, che si erano smarrite e sconvolte.
Viva? sì, viva, dal momento che tale mi sentivo.
Bisognava adesso cercare d’uscire pian piano da quella tomba, che di certo non doveva essere profonda. Io avevo avuto l’esatta percezione di non essere precipitata. Il pavimento aveva resistito: le grosse travi si erano ritrovate nelle solide incassature alla fine dello sconquasso tremendo.
Quanto tempo dovetti lavorare per liberarmi da quel soffitto a rifascio?
Non so… non ricordo…
Ma ecco… ecco finalmente il soffio dell’aria… ecco finalmente il cielo…
E dritta, come una risorta, su quelle rovine, io ritornai alla vita… La vita… la bella vita luminosa, anche se respirata sul cratere d’una immane ecatombe!
Una piccola nidiata di fanciulli, i miei alunni più cari, terrei di spavento e fradici di pioggia – adesso il cielo piangeva sulla crudeltà di quel terrore – mi ripetevano una parola, una desolata parola: Maestra! oh! Maestra!
Tutto, tutto era stato, nel palpito di pochi secondi, schiantato e travolto.
Case, affetti, amori…
Tutto, tutto era stato, in un soffio di tempo, sradicato e abbattuto.
Anni di lavoro: anni di sacrificio: tranquille vite al tramonto: giovinezze di sole: albori in germoglio…
Tutto era adesso un ammasso di rovine fumanti, di macerie giacenti alla rinfusa, bloccate dalle frane che avevano coperto le strade e spezzato i ponti, e minacciate da larghi, orribili e profondi squarci della terra. Di quella terra, che fra non molto, al cadere delle notti, avrà dei boati spaventosi e infernali, seguìti da scosse a ripetizione; boati simili a ruggiti di leoni ciclopici, che racchiusi nelle profondità degli abissi, si fossero d’improvviso destati, e avessero addentato il ventre di quella smisurata oscurità.
Ombre e fantasmi… i superstiti fra quelle rovine.
E v’è chi, le braccia verso il cielo, maledice “Iddio” per quel castigo tremendo… poi singhiozza e domanda perdono, tenendosi disperatamente il volto fra le mani.
E v’è chi, accasciato sulle rovine della piccola casa, è un naufrago sperduto nel più atroce dolore.
E v’è chi, avvinghiato al corpo d’un morto, gli ricorda in una nenia, frammista di pianto, le sue bellezze, le sue virtù, le sue abitudini, e le sue promesse.
E v’è chi, disteso bocconi sopra un mucchio di rottami, invoca, ad alte grida, un nome, un volto, ed un cuore.
E v’è chi, immobile, senza battere di ciglio e movimento di labbro, assorte le pupille nel nulla, pare un fulminato sulla soglia del passato.
Avanzando alla meglio fra quell’intrico di tronchi, di sbarre contorte, di travi incrociate; e impalcature disfatte, a rifascio; e intrecci di paglia, di canne, di vimini, di calce; e intelaiature di porte, di finestre, di persiane; e barricate di mobili in frantumi; tra muri pericolanti e lo sprofondarsi, a tratti, di tutto quel rottame malfermo e alla rinfusa… in pochi avevamo incominciato la pietosa opera di salvataggio.
Lontani, così lontani da tutti; tagliati dal mondo intero; senza mezzi, senza viveri, senza risorse; incatenati sopra un immenso sepolcro urlante, noi eravamo là, a respiro sospeso, a cuore disperato, in tutta la tensione della nostra energia e della nostra giovinezza; noi eravamo là, a contendere palmo a palmo, minuto per minuto, alla tragica morte, i vivi sepolti.
Attorno raffiche di vento e di pioggia e lumeggiare di lampi. Dall’alto lo scrosciare rapido del torrente. Da sotto il gemito straziante dei sepolti e l’urlìo interminabile del bestiame. Giù, nella valle, il frastuono del fiume torbido, grosso e minaccioso tra i pioppi, i faggi e gli abeti!
Non l’ombra d’un re, d’un duca, o d’una principessa reale, passò, per qualche ora, fra quelle rovine. Questa carità dalle mani bianche e aristocratiche, come avrebbe potuto sfidare il rigido inverno di quelle contrade, ed i pericoli, i disagi, le incognite delle strade mulattiere, ripide e ardite lungo i fianchi dei monti, capricciose e frastagliate fra le balze, le rocce, le boscaglie e le valli?
Questa carità dalla maschera fine e gentile, come avrebbe potuto inerpicarsi fin lassù, senza il codazzo chiassoso dei cortigiani che la magnifica; senza il tic-tac degli obiettivi fotografici che la ritrae ad ogni gesto e ad ogni lacrima; senza la risonanza della grande stampa che ne esalta e ne conclama l’offerta e il sacrificio?
Migliaia e migliaia di rozzi e analfabeti contadini; forti, ruvidi, austeri; sagomati, allorché curvi sul lavoro, con la terra e la montagna; dei quali tutti ignorano l’esistenza; ma di cui nessuno si dimenticherà fra breve, quando saranno chiamati alla cruenta difesa della patria in pericolo;
Migliaia di queste vite semplici ed umili – ricchezza vera del paese – in muto amore e colloquio con la terra sana e feconda, che cosa sono esse, che cosa valgono
esse, in confronto d’un frac e d’una tuba uscenti traballando da un’orgia notturna? Che cosa sono esse, che cosa valgono esse, in confronto d’una corona o d’un diadema che sfolgora e brilla sopra una fronte regale sospettosa e tremebonda?
Maestrina, giovane maestrina, dall’animo già in tumulto e in rivolta, che curva a bendare i feriti e a dare riposo ai morti, hai il volto bagnato di lacrime roventi;
Maestrina, che pallida e fragile nel succinto vestitino nero, sembri l’anima del dolore fra le macerie; tu meglio comprenderai domani, che allorquando i potenti e i coronati discendono dal fasto dei loro castelli, pretestando angoscia, aiuto, amore per i colpiti dalle calamità naturali, è la mano farisea che cerca far dimenticare con quel gesto, di essere la forza motrice di tutte le calamità sociali; è la mano usuraia tesa alla sventura, per inconfessabili e smoderati fini di vanagloria, di pubblicità, di arrivismo e di potere.
La disperazione dei primi giorni si era andata man mano mitigando.
Quasi tutti i feriti erano stati trasportati, con pesanti autocarri, nella città più vicina; tutti i morti, poveri corpi mutilati, lividi e tumefatti, riposavano in una profonda e
larga fossa in comune, e sotto provvisorie tende malferme e insicure, ogni superstite andava riunendo i suoi affetti, i suoi pensieri e le sue tristezze.
All’aperto, sotto il cielo basso e greve, quasi torce sorrette da mani invisibili attraverso le vie della notte, ardevano fuochi vividi e scintillanti dall’odore acuto di ginepro, di timo e di ginestra. Alcune vecchie comari – quelle che con olio, grano e acqua fanno e disfanno le “fatture”; quelle che con la corona del rosario e con le fasce dei neonati uccidono lo spirito maligno nel corpo dei bimbi irrequieti; quelle che con l’infuso d’erbe misteriose tolgono o ridanno l’amore – si erano, quella sera, riunite a parlare dei loro segreti e delle loro malìe.
– Donna Luigia è inconsolabile e sembra davvero una madonnina di cera… e sfido io… dopo tanti anni d’amore… alla vigilia del matrimonio… vederselo ridotto così il suo fidanzato… il giovane più bello e più ricco del paese! Ma perché non ne muoia le voglio fare una fattura senza nodo… le voglio fare… Così dovrà svegliarsi un bel mattino senza più nessuna memoria e nessun ricordo del passato.
– Vedete, interloquì un’altra, che sopra la tenda di Giovanna Maria brilla una stella più rilucente delle altre? Finito il lutto, appena ripiegato il velo nero, don Giovanni, di certo, la porterà all’altare.
– E la Menica e compare Antonio, rimasti adesso così soli… via… non farebbero ancora una bella coppia così forti come sono?
– E della simpatia pare che già… che già ne avessero…
– Ma pura, comare benedetta, pura come l’acqua delle novantanove cannelle.
E così, di questo passo, quelle linguacciute fattucchiere avevano in poche battute annodato altri affetti, altri legami: avevano in pochi minuti riedificato sul passato un mondo tutto nuovo.
– Ma la potreste finire una buona volta, io dissi severamente, fermandomi d’improvviso davanti a quel caratteristico gruppo, macchia di tinte vivaci nel biancore della neve.
Uno, due, tre, quattro volti… quasi tutti uguali – un capriccio di rughe e due occhietti vivaci sotto l’ombra del fazzoletto – si sollevarono verso di me con meraviglia.
– E poi… parlare così… mentre i morti sono ancora caldi… non vi sembra dunque di offendere qualcuno, di insultare qualcosa?
– Maestra, rispose allora la più autorevole e la più vecchia, e parlava adagio, scandendo quasi le sillabe, per dare una espressione profetica alle sue parole, maestra, tu sei troppo giovane e ancora tanto inesperta della vita. Ma io ti dico, io che leggo nelle stelle, nel grano e nella mano, io ti dico che fra pochi mesi più nessuno piangerà i perduti. I vivi con i vivi: i morti con i morti, giovane maestra.
Verità amara: il fondamento forse della vita; ma una di quelle realtà che si mandano giù tanto male.
Entrai in una larga tenda dove più persone, intimamente riunite, avevano ripreso l’abitudine di fare insieme la veglia. Si alzarono tutti per cedermi il posto: poi qualcuno,offrendomi una tazza di caffè odoroso e bollente, continuò, indirizzandosi a me, la discussione:
– È vero o non è vero, Maestra, che presto, ben presto l’Italia dovrà decidersi di entrare in guerra?
Un tuffo al cuore: un ribollimento di tutto il sangue che già tanto amaro era diventato in quei giorni, e due parole, due sole parole che rivelarono d’improvviso, senza veli, tutto l’animo mio: “Un delitto” risposi…
E a fronte alzata, aspettai la tempesta.
– Ecco… proprio come dicevo io, approvò battendo le mani, Angelantonio: un giovane che era tornato dalla Germania dove aveva, per alcuni anni, lavorato in miniera.
Volsi lo sguardo e sorrisi a quell’aiuto inaspettato.
– Un delitto, ripresi. Perché questo folle massacro di uomini e di cose? Avete fatto dei figli dunque, per mandarli infine allo scannatoio?
Nessuno osava ribattere. Quella parola “scannatoio” aveva fatto trabalzare le donne e ammutolire gli uomini.
– Un delitto che voi non dovreste permettere. Guardate… e qui le parole le sentii miste di lacrime tanto cocente era dentro l’angoscia; tutto attorno a noi è scomparso, e contro queste misteriose forze della natura nulla purtroppo noi possiamo opporre. Ma contro la guerra, questa più terribile sciagura, che pochi pazzi e criminali preparano, gli uomini hanno la forza, la ragione, la volontà, il diritto… la ribellione.
Io mi ero accesa in uno slancio di avvampante passione e vidi, fra gli altri, gli occhi grandi e luminosi di Angelantonio, pieni di lacrime e di speranze.
– Ma i nostri fratelli di Trento e di Trieste? Ma la patria? obiettò timidamente qualcuno.
– E gli uomini di tutto il mondo non sono ugualmente essi dei nostri fratelli? Chi ha il diritto di dire: Fin qui siete fratelli, al di là di questo segno voi non siete che dei nemici implacabili?
– Certo, certo che la nostra maestra ha ragione… ha “studiato agli studi” essa… e vuol bene alla povera gente come noi…
Ed i visi si fecero più vicini a me, con attenzione e interesse.
– E quelli che avete dovuto cercare lavoro all’estero non vi siete sentiti più in patria fra i tessitori, i contadini, i minatori della Germania, che fra i signorotti rapaci, superbi e insolenti del vostro paese?
– Che verità… che verità sacrosante!… come don… don… – e qui il nome veniva taciuto – che ci prende tutto il raccolto senza dirti nemmeno: muori.
– Ma io vi dico, invece, povere anime di Cristo, vicino alla dannazione, vi dico che è Dio che permette la guerra… non muove foglia senza che Dio non voglia…
interruppe una barba bianca e fluente: l’uomo più vecchio e più ascoltato della montagna.
– Che mostro il vostro dio, saltò su Angelantonio, abituato alle franche e rudi discussioni fra emigrati… un mostro che vuole il terremoto, la peste, la carestia, la guerra…
– Satanasso!… urlarono le donne, avvicinando alle labbra il rosario. Se sei tornato in paese per prendere moglie, ti faremo “mangiare il limone”… ti faremo!
– Prendermi una delle vostre oche io? grazie, rispose il giovane con un poco d’impertinenza che mi spiacque, perché sciupava la sua bella e altera fierezza.
Una biondinetta piegò la testa, e sotto le ciglia lunghe e sottili io vidi brillare alcune lacrime amare. Aveva ella, mite ed ingenua, tessuto già qualche sogno?
– Eppure… con rispetto a vossignoria, maestra, intervenne la guardia campestre, che all’occasione era l’autorità poliziesca del paese, io penso, io dico che il re… il re è il padrone…
Ma d’improvviso una voce calda e melodiosa, venente da lontano, si sfioccò in languidi sogni attorno e sopra di noi…
O amore, che mi guardi dalle stelle,
Scendi tra i monti e lasciati baciare…
Strette, mute, adesso, le labbra; ardenti i cuori ed ogni volto sbiancato…
O amore, che la vita mi torturi,
Fra le tue braccia fammi singhiozzare…
Tutto l’accampamento pendeva da quella magnetica, limpida voce. Tutta la selvaggia e magnifica terra d’Abruzzo apriva le vene turgide e sane a quella traboccante passione. Il passato… la sventura… le rovine… la vita sui sepolcri… gli odii… gli amori… le umiltà… il soffio delle lontane lotte sociali… le ribellioni… e nell’ombra, protetta da mostri feroci, l’immensa fornace della guerra, dagli occhi di sangue e dalle fauci di fuoco.