Questamarsica
Autori:
Nando Amiconi, Aroldo Buccilli, Giulio Butticci, Walter Cianciusi, Pietro Cimini, Ennio Colucci, Bruno Corbi, Gianni Corbi, Alcide Cotturone, Mario Dell’Agata, Ercole Di Renzo, Vittoriano Esposito, Nino Gagliardi, Carlo Alberto Graziani, Angelo Melchiorre, Tommaso Lelio Orlandi, Ugo Maria Palanza, Pietrantonio Palladini, Stefania Maria Paris, Giuseppe Pennazza, Tommaso Petricca, Mario Pomilio, Andrea Rapisarda, Bruno Roselli, Alceste Santini, Umberto Scalia, Ignazio Silone, Antonio Spadafora, Franco Tassi, Federico Gismondi (figurazioni grafiche) – a cura di Romolo Liberale
Anno:
1981
Casa Editrice:
Edizioni dell’Urbe
Che cosa ha potuto essere il Fucino per un giovane studente cresciuto ad Avezzano tra il 1930 e il 1940? Le lunghe file di pioppi? Le strade dritte e lunghissime, allora piene di polvere d’estate, e di fango d’inverno, ma pure occasione di grandi corse in bicicletta? Il fascino del canale collettore, a quel tempo verdissimo? Lo scroscio dell’acqua sotto il Madonnone dell’Incile e il mistero della galleria sotterranea che la portava a riversarsi nel Liri con una cascata allora bellissima (ora secca) che lasciava intravedere la galleria scavata dai Romani? Le lunghe fila di carretti che trasportavano in autunno le barbabietole allo zuccherificio? Le storie che ci raccontavano a scuola circa il prosciugamento, e più tardi le pagine di Tacito circa i lavori ordinati dall’imperatore Claudio, con la battaglia navale svoltasi nel lago prima dell’apertura delle gallerie? La visita ai cunicoli (di Nerone, li chiamavano) fatta inerpicandosi sulle sterpaglie per gettar l’occhio nello stretto imbuto che finiva paurosamente nel sottosuolo?
Per anni per me il Fucino è stato tutto questo insieme (e solo questo): un paesaggio e una favola. Più tardi, dopo l’università e la guerra, ho aperto gli occhi su altro, sulla fame di terra dei contadini che vivevano nei paesi torno torno il comprensorio, sul loro istinto sociale, sui loro bisogni, e la storia di quegli anni è entrata a far parte della mia storia personale. E spesso dopo d’allora ho pensato al Fucino come ad una specie di scuola, per quel che mi ha insegnato, per come mi ha rovesciato problematiche e prospettive: una scuola nel senso sociale, ma anche nel senso dell’umiltà. Vi ho appreso un linguaggio, vi ho capito sentimenti, ho potuto spogliarmi di almeno una parte della mia crosta di giovane intellettuale. Perché il Fucino, per come lo conosciamo noi che veniamo di lì, è più d’un luogo o d’un paesaggio: è una condizione, a creare la quale si sono date la mano la geografia e la storia; e gli uomini soprattutto, che l’hanno modellata e vi si sono modellati in maniera tanto diversa da come è potuto accadere altrove.
Carlo Alberto Graziani – Montagne Marsicane
Per me adolescente la Marsica e il Fucino non significavano altro che montagne: dal Marsicano alla Terrazza, dal Sirente alla Magnola, dal Velino ai monti della Duchessa; e poi, anche se non li conoscevo altrettanto bene, i monti verso il Lazio, L’Autore, il Viglio. E poiché le montagne erano la mia profonda passione ad esse sono legati i ricordi di quel tempo: quando il Fucino mi appariva dai finestrini di un accelerato arrancante e di una corriera sgangherata nelle sue dolci ma fuggevoli visioni che rallentavano solo allorché alzavo gli occhi nell’estatica ammirazione di cime e di versanti lentamente mutevoli: o quando, inerpicandomi, il piano segnava la progressione dell’ascesa – e quindi la sensazione di sentirmi forte, sempre più forte – e insieme la misura della lontananza dal mondo, e poi, in vetta, il punto ove lo sguardo e i sogni si perdevano per lunghi istanti, a volte per ore; oppure quando, sulla via del ritorno, il Fucino mi veniva incontro, lentamente come la stanchezza, con i suoi odori, i suoi colori, i suoi silenzi e i suoi suoni e, di notte, i suoi lumi.
Fucino sempre eguale eppure sempre diverso. La diversità riempiva il mio animo e più ancora il mio fisico che cercava nuove sensazioni e nella natura trovava ciò che altrove sembrava precluso. Così i colori del tramonto non erano mai eguali a se stessi e offrivano motivi di nuovo stupore; anche l’avvento del giorno, che mi coglieva in cammino fugando le angosce notturne, rinnovava ogni volta il fascino del suo mistero; ma soprattutto era con la luminosità che il Fucino mutava il suo aspetto: nei giorni più limpidi gli alberi dei canali, i filari, la geometria degli appezzamenti si dispiegavano come su una tela fiamminga e l’occhio si spingeva fino a scoprire la Maiella con i suoi enormi bianchi calanchi; quando invece l’aria faceva filtrare a traverso i raggi del sole, il verde cangiante dei boschi scandiva la profondità delle valli. Anche le nubi plasmavano paesaggi sempre nuovi fino a coprire, a volte, tutta intera la piana e a ricreare per chi scendeva dal valico di Gioia Vecchio il miraggio dell’antico lago, sul quale il Velino appariva come una gigantesca nave: allora era come se la natura avesse voluto prendersi la rivincita sull’uomo che l’aveva domata, soffocandolo in una nebbia che poteva durare giorni e giorni.
Conoscevo le vette che una volta si erano specchiate in quel lago e che continuavano a guardare Fucino inconsapevoli di ciò che era passato perché il segno tremendo si era arrestato alle pendici. Anche io guardavo Fucino, ma neanche io conoscevo la sua storia.
Salivo con il vento e la pioggia, con il sole e la neve, di giorno e di notte; riconoscevo alberi, anfratti, ghiaioni, sentieri, passaggi di roccia e di ghiaccio, e in cima la grande croce con la campana, in basso i paesi e le chiese. Eppure Fucino io non lo conoscevo.
Sentivo il richiamo triste e lontano del cuculo, lo schiamazzo amico della ghiandaia e di notte il gufo e la civetta erano i miei compagni. Eppure io compagni a Fucino non ne avevo.
Scendevo tra i mandorli in fiore, camminavo su prati di mille colori, respiravo profumi di viole in primavera e l’odore dei camini nell’inverno. Ma non sapevo che quei colori e quei profumi erano come la mia gente: ti accorgi della loro intensità se sei fra loro, se li senti vicini.
Soffrivo il freddo, il caldo, la suprema stanchezza per una felicità che sa solo chi va in montagna. Ma non sapevo che un altro freddo, un altro caldo, un’altra suprema stanchezza tra quelle stesse montagne aveva sofferto e soffriva chi quella felicità non conosceva.
Forse per questo amavo le incisioni abruzzesi di Edward Lear, il viaggiatore inglese del secolo scorso, e la poesia di Gabriele D’Annunzio. Ma Lear e D’Annunzio, anche se il primo aveva disegnato con linee evanescenti i due Velini e il secondo aveva cantato “i latifondi” che si estendevano tra la Serra di Curti ed il Sirente, non conoscevano Fucino.
Da tempo questi luoghi non significano più, per me, soltanto montagne. Forse dal giorno in cui vidi il vuoto della rassegnazione negli occhi di una contadina che trascinava un asino alla carezza tra gli angusti muriccioli di un antico villaggio. Fu quando, in una delle mie scorribande, capitai a Sperone: cercavo il passato, come cercavo la montagna, per trovare in una scritta incisa sulla pietra o tra i resti di una vecchia abitazione, o nella natura intatta che a me, solitario, si svelava, il segreto delle cose che non riuscivo ad afferrare nella vita quotidiana. Sperone, fuori dal mondo, rappresentava il passato, al pari di Gioia Vecchio, al pari dei due borghi che hanno preceduto l’attuale Lecce dei Marsi e che oggi sono ridotti a un ammasso di ruderi. Amaro destino di questi paesi: attirati in un tragico tranello dal lago maledetto e poi risorti a nuova vita a prezzo di dure fatiche e di nuovi lutti, essi mostrano nella trama anonima degli edifici i segni dello sradicamento. Il volto della donna non aveva età, ma i suoi occhi erano gli stessi che dalle grandi finestre della casa avita vedevo, bambino, nei miei coetanei. Ho saputo più tardi – troppo tardi – che quegli sguardi erano il segno della fame; ma allora la parola fame non esisteva nel vocabolario delle cose che mi circondavano e mi proteggevano.
La barriera è caduta quando quei bambini, cresciuti, mi hanno raccontato: ho ricordato allora i grandi pezzi di pane divorati senza companatico, i ragazzini a guardia delle greggi nei lontani pascoli sui monti, l’umiliazione del chiedere gli avanzi; ho saputo delle gambe nude nel Sangro dove, nelle notti d’inverno, si catturava la trota, dei ciocchi portati a scuola che non bastavano ad asciugare scarpe e vestiti; e mi hanno detto che la poesia del tratturo era tragedia per loro e tragedia era anche, e insieme vergogna, l’emigrazione della grande città dove io spensierato crescevo.
Oggi quei bambini sono i miei compagni e compagni ho anche nel Fucino. Da loro ho appreso la storia della “terra che fu lago”. Una storia che avevo iniziato a scoprire proprio là dove il tempo si era fermato, guardando quegli occhi che sembravano chiusi a ogni speranza.
Ma chi mi ha raccontato quella storia non mi ha parlato di rassegnazione: mi ha detto invece di disperazioni e di speranze, di sogni e di lotte.
Perciò, quando dal treno dei pendolari che mi porta ad Avezzano, e dalla corriera eternamente sgangherata che sale lenta verso Villetta continuo a guardare quei monti, più non riesco a provare la felicità solitaria di un tempo: sento le ansie e le inquietudini della mia terra, avverto le speranze della mia gente.
A queste ansie, a queste inquietudini, a queste speranze sono legati oggi i miei sogni.