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Ignazio Silone – Il lievito del cuore

Nel 1956, sulla rivista Prospettive Meridionali, appare un racconto di Ignazio Silone dal titolo “Il lievito del cuore”. Il testo, in realtà, nasce come soggetto cinematografico, riuscendo anche ad aggiudicarsi il primo premio ex-aequo in un concorso indetto dal “Centro democratico di cultura e documentazione” con una giuria d’eccezione composta da importantissimi nomi del mondo della cultura e del cinema, tra cui Federico Fellini e Gian Luigi Rondi. Come ha scritto Vittoriano Esposito in una “noterella” contenuta nei Quaderni Siloniani del 1997 in cui è presente il testo riscoperto da Diocleziano Giardini: “A nostro parere, è un recupero davvero importante perché con esso Silone fornisce una risposta, apparentemente paradossale, all’inquietante interrogativo “Che fare?” delle ultime pagine di Fontamara.”  Leggendo il racconto si possono ritrovare tutte le ragioni di questa affermazione, oltre a uno stile pieno di ritmo, asciutto e autentico. Il racconto, dopo la pubblicazione del 1956, non è stato più ristampato. Lo riproponiamo nella versione integrale contenuta nei Quaderni Siloniani del 1997.

“Contadino Abruzzese” – Federico Spoltore (1921)

Un camion avanza rapidamente su una strada asfaltata di pianura, fiancheggiata da giovani pioppi robinie e olmi. È il mese di agosto, subito dopo la trebbiatura del grano. Il camion oltrepassa un cartellone stradale con la scritta:
ENTE FUCINO — VILLAGGIO RESIDENZIALE BORGONUOVO. 

Subito dopo, il villaggio. Panoramicamente esso appare di recente costruzione: in tutto una cinquantina di case coloniche a due piani, con quattro alloggi ciascuna. Sul piazzale del villaggio, la solita folla domenicale di contadini, suddivisi in numerosi crocchi che discutono animatamente. In mezzo al piazzale, una grande fontana: da una parte la chiesa; dall’altra una tettoia per il deposito di macchine agricole e arnesi di lavoro. Alcuni grandi cartelloni, piantati nei quattro angoli del piazzale, recano grafici e dati sui primi risultati della riforma agraria in tutta l’Italia meridionale. Da lontano, sagome d’altre case coloniche in costruzione. Sotto la tettoia alcuni contadini osservano con curiosità un rotovator, che sostituisce |’aratro tirato da buoi per la frangiatura delle zolle (la tradizionale “ristruccatura”); altri si lasciano spiegare il funzionamento di uno svecciatore per cereali. Ma il tema dominante delle conversazioni è triste. Il raccolto è stato magro, il grano ha avuto la “ruggine” e la “stretta’’, le spighe erano piene, i chicchi vuoti. Nessuno vuol comprarlo; i contadini hanno bisogno di denaro e i prezzi del grano nuovo sono bassi. Come si farà per la semina? Non si potrà mica seminare il grano con la “ruggine”. Il camion visto prima, si è fermato in mezzo al piazzale, vicino alla fontana, e ne è sceso il conducente, un giovane vigoroso, in calzoncini corti e maglietta. Egli è subito avvicinato da alcuni contadini che l’aspettavano. “La tua ultima risposta, Marco?”, gli chiedono. “No”, egli risponde. Ne nasce un vivace alterco. Marco si rifiuta di entrare nella cooperativa di produzione e lavoro; egli è contro le cooperative; è per il rischio e il profitto individuale. Gli si obietta: “Il profitto individuale può aumentare con la cooperativa’’; ma egli non sente ragioni. Alla discussione partecipano altri, essa diventa violenta. La cooperativa è in una fase critica; forse ha fatto troppe spese; adesso avrebbe bisogno d’un camion e non è in grado né di comprarlo, né di affittarlo. Marco rifiuta di lavorare a credito. “Sei stato un borsaro nero e lo sei rimasto”, gli grida un giovane contadino, un certo Achille. Ne nasce una colluttazione. Marco abbatte brutalmente Achille, ma anche la sua maglietta va in brandelli. In quel momento avviene I’uscita dalla vicina chiesa d’un gruppo di fedeli, per lo più donne. Alcuni giovanotti seguono le loro ragazze, a debita distanza. Una giovane, Silvia, fidanzata di Marco e sorella di Achille, si avvicina. “Cosa vi è successo?” domanda ai due, ma rivolgendosi soprattutto al fratello che ha un occhio tumefatto. “E’ stato il tuo borsaro nero”, Achille risponde. Si riaccende il diverbio. Silvia porta via il fratello e nemmeno risponde a Marco che l’invita al cinema per il pomeriggio. Alcuni contadini commentano I’atteggiamento di Marco; si ripetono i pro e i contro; ma l’opinione prevalente è che la cooperativa sia fallita e si debba sciogliere. Alcuni hanno già dato le dimissioni. Due vecchi contadini, evidentemente non di Borgo Nuovo, si sono avvicinati alla fontana per abbeverare i loro asini; ma Marco li allontana a spintoni; egli deve rifornire d’acqua il proprio camion. Uno dei vecchi osserva Marco, prima con curiosità, poi sorridendo, e dice all’altro: “Non riconosci questo giovanotto? Guardalo bene. Non ti pare il figlio della buon’anima d’Antonio Orecchione?”’. L’ altro vecchio conferma: “Tale e quale, dev’essere lui”. Marco ha udito le parole dei due e domanda risentito: “Cosa avete da criticare contro mio padre?”. “Contro? Nulla”, gli risponde uno dei due vecchi con bonomia. “Posso anzi augurarti solo una cosa: magari tu gli somigliassi”. “Tu lo conoscevi?”. “Crescemmo assieme. Facemmo anche un po’ di carcere assieme”. Dopo aver abbeverato gli asini i due si allontanano. “Li conosci? Chi sono?” domanda Marco a un rivenditore di frutta che ha il suo carrettino vicino alla fontana. “Sono di Borgo Vecchio”, risponde il fruttaiolo accennando al villaggio sulla collina. “Uno di essi lo chiamano Biagio il canestraro”.

La sera Silvia aspetta invano Marco per fare pace. Passano sotto la sua finestra alcune compagne che la invitano a passeggio, ma lei rifiuta con dei pretesti. Irritata dal ritardo del fidanzato, ella finisce col bisticciare col fratello Achille, il quale ne approfitta per vuotare il sacco contro Marco. “Non si sa di chi sia figlio”, dice. “Suo padre morì ucciso, bella referenza. È cresciuto, racconta lui, in un orfanotrofio; ma altri dicono in una casa di correzione. È un egoista feroce, uno sfrontato. Ha la mentalità del borsaro nero, vuole guadagnare molto, subito e con poca fatica. Mentre tu l’aspetti, magari lui sta con un’altra ragazza”. Silvia si rifugia nella sua camera e piange. Intanto Marco è salito a Borgo Vecchio, alla ricerca di Biagio il canestraro. Sulla collina la terra è aspra e spoglia. Le case del villaggio sono povere, nere, affumicate; tuguri e stalle alla rinfusa. Marco ha lasciato il camion all’entrata del villaggio e si aggira per i vicoli. Il contrasto con Borgo Nuovo è impressionante. In una piazzetta un contadino sta battendo il granturco all’antica, col bastone; una donna ventila le lenticchie con la còscina. Si odono belare capre, piangere bambini. I vecchi sono seduti sulla soglia delle case e guardano Marco con indifferenza. In uno dei vicoli egli incontra un conoscente. “Cosa fai qui? Ti credevo in Svizzera”, gli dice. “Vi sono stato infatti due anni e ora sono tornato”, l’altro risponde. “Quanto guadagnavi lassù?”’. “Più di qui. Col denaro riportato mi sono comprato la vigna”. “Cessò il lavoro? Perché sei tornato?”. “Come, perché? Qui sono nato e cresciuto: il denaro non è mica tutto”. Marco lo guarda con commiserazione, come uno scemo, e si fa guidare da lui alla casa di Biagio. Il vecchio è sulla porta e riconosce subito Marco; chiama la moglie, i vicini. “Indovinate chi è questo? Guardatelo bene in faccia”. La commozione è generale. “Sembra il padre risuscitato”, dice uno. “Di faccia gli somigli, ma anche nel carattere?” dice un altro. “Non lo so”, dice Marco, “sapete, non l’ho mai conosciuto”. Biagio invita l’ospite in casa e gli offre da bere. “E’ un vinello leggero, ma è della nostra vigna’’, dice. Il tavolo è ricoperto da una tela cerata sulla quale è raffigurato il ponte di Brooklyn, con l’acqua dell’East River fosforescente. “Sei stato anche tu laggiù? Guadagnavi bene? E perché sei tornato?”. “Vedi, quest’è una domanda che tuo padre non m’avrebbe fatta’’, gli risponde Biagio. “Com’era mio padre? Non so quasi nulla di lui. Qualcuno ne parla come di un santo, altri come d’un delinquente”, dice Marco. “Né l’uno, né l’altro, ma un uomo onesto”, risponde Biagio. “Sediamoci fuori, al fresco”, egli propone. “Si parla meglio”. Marco, Biagio e la moglie si siedono fuori la porta. Davanti ai loro occhi si stende la conca del Fucino. Ai margini della conca, ai piedi della collina, si vedono le luci di Borgo Nuovo. “In quel tempo”, racconta Biagio, “la vita era difficile per gli uomini onesti. Erano tempi di miseria. La filossera e la peronospera ci rovinarono. Si mangiava carne una o due volte l’anno. Si camminava scalzi; si risparmiava l’uso delle scarpe per le grandi occasioni. I giovani fumavano le foglie di granturco. Lavoravamo dall’alba al tramonto; eravamo pagati una miseria. Avevamo ancora i lumi a petrolio, gli aratri di legno. Chi poteva, scappava. A novembre, ogni anno si celebrava la “‘messa degli americani”, la messa di quelli che partivano per l’America. Ogni anno la chiesa era piena. I rimanenti ogni mattina si trovavano in piazza, in attesa d’un padrone o d’un fattore che li chiamasse per la giornata. Chi non era chiamato, si stringeva la cintola. In quanto a forza di volontà di lavorare nessuno stava alla pari di Antonio Orecchione. Era un giovane forte e generoso, di buona compagnia. Per vari anni fu sempre il primo nella gara del solco diritto. Era insuperabile nel domare i puledri e i vitelli. Solo le disgrazie potevano ridurre un uomo simile senza terra. In uno stesso anno, l’alluvione gli portò via il raccolto e suo padre si ruppe una gamba. Quando una volta succedevano queste disgrazie, si dovevano scontare tutta la vita. Tuo padre dovette vendere tutto. C’era di peggio. Come sta scritto nel Vangelo, c’era chi, pur avendo mille pecore, voleva anche la pecora del povero che ne aveva una sola. Per averla, secondo i casi, si serviva della legge, dell’inganno o della violenza. Un anno tuo padre Antonio andò a svernare con le pecore nelle Puglie. Quando tornò qui, in primavera, ci disse: “Strada facendo ho sentito che c’è una legge per i contadini poveri del Mezzogiorno che riguarda anche noi e che qui nessuno ci ha mai spiegato”. Scrivemmo per informazioni a un avvocato di Sulmona che ci confermò il fatto. La legge non era un gran che, ma qualcosa lo era. Un contadino che aveva un solo asino o solo un paio di capre, non pagava le tasse. Antonio ci radunò una decina di amici e ci presentammo al comune. Chiedemmo scusa del disturbo e spiegammo il motivo della visita. I signori del comune non negarono che la legge esistesse; ma, per usufruirne, ci dissero, era necessaria una domanda di ogni interessato, e siccome fino a quel giorno nessuno aveva fatto la domanda… In breve, facemmo tutti la domanda; per quelli che non sapevano scrivere, la fece Antonio tuo padre e loro la firmavano con una crocetta; e fummo esentati dalla tassa. Non ti dico il risentimento dei due o tre signorotti del paese contro Antonio, tanto più che lui, in quell’epoca, non aveva neppure un asino o una capra. Da quel momento lo presero di mira, vigliaccamente, cercando di affamarlo. Nell’entusiasmo per il risultato della tassa, qui si formò una lega di contadini, e nella sede della lega si aprì una piccola cooperativa che rivendeva, quasi a prezzo di compera, alcuni generi di largo consumo. come I’olio, il baccalà, lo zolfo per le vigne. Non era, in sé, nulla di straordinario. “Lo straordinario”, diceva Antonio,“ è che siamo uniti e che ci consigliamo gli uni con gli altri”. Eravamo all’epoca della mietitura; per un mese, come al solito, c’era grande mancanza di mano d’opera. Una mattina andiamo in piazza, ad aspettare la chiamata. Arrivarono i padroni coi loro fattori e in un momento si accaparrarono i braccianti. La piazza si vuotò. L’unico che non fu chiamato fu tuo padre, Antonio. Eppure un altro mietitore come lui, qui, non si trovava. Era la punizione. Accadde di peggio. Per fare la mietitura Antonio dovette andare a Celano, dove aveva dei conoscenti. Una sera, dove è adesso Borgo Nuovo, bruciarono un centinaio di covoni di uno dei nostri signorotti. Prima ancora di stabilire se fosse stata disgrazia o cattiveria, fummo arrestati in parecchi, come sospetti. Tra gli arrestati, anche Antonio, benché potesse provare che nell’ora dell’incendio era a una grande distanza dal luogo. Ci rimisero in libertà quando l’epoca dei grandi lavori era finita e il guadagno perduto. Nella maggiore angustia si trovava Antonio. Egli era fidanzato da tre anni con Assunta la tintora; non poteva rimandare le nozze a lungo. Per amore di quella ragazza fece un voltafaccia che ci sorprese tutti. Una sera venne alla lega e ci disse che lui si dimetteva e di non contare più su di lui, perché doveva farsi i fatti suoi. L’indomani entrò al servizio di uno dei signorotti locali, come guardiano. Guardiano era un modo di dire: poteva significare tirapiedi del fattore, ma anche mazziere. Quando una vertenza del padrone si complicava, il fattore diceva che sarebbe stata affidata al guardiano. II giorno in cui vedemmo per la prima volta Antonio con fucile a tracolla, i gambali di cuoio e il berretto con la visiera, non credevamo ai nostri occhi. A dir la verità anche lui si vergognava. Se c’incontrava, scantonava o guardava altrove, benché nessuno osasse fargli dei rimproveri: anche lui doveva pensare ai fatti suoi. Ma per credere che egli potesse restare a lungo in quell’impiego, non bisognava conoscere Antonio. Egli poteva essere violento, ma non cattivo. Una notte scoppiò un incendio nella sede della lega. Le poche merci della cooperativa andarono distrutte. La mattina dopo Antonio riapparve in piazza senza fucile, né gambali, né berretto: si era licenziato dal posto che aveva. Subito se ne conobbe anche la causa: egli aveva rifiutato di prendere parte all’incendio della sede della cooperativa. Conosceva dunque gli incendiari e il loro mandante?. “Se il giudice mi interroga – egli disse – dirò la verità’. Quella che doveva essere la sua ultima sera. la passò qui, dove siamo seduti adesso, assieme ad altri amici. Benché certamente sapesse di essere in pericolo. non ne fece parola. Era un uomo di compagnia e gli piaceva di stare nuovamente assieme agli amici. Alcune sue parole di quella sera non mi sono più uscite di mente. “Ognuno ha il diritto di farsi i fatti suoi – disse – ma non a spese degli altri. Anche per l’egoismo ci vuole un limite”. Volle rincasare abbastanza presto, perché la moglie, Assunta, era incinta di sette o otto mesi e non voleva lasciarla sola. Si allontanò di qui che potevano essere le nove, ma il cielo era coperto e perciò il vicolo era in un’oscurità completa. Seguimmo il rumore dei suoi passi. Poi una detonazione d’arma da fuoco. Presi una lanterna e accorremmo. Lo trovammo disteso per terra, in una pozza di sangue, mentre spirava. Quell’omicidio fece un’impressione enorme in tutta la contrada. In un certo senso, fu da quella sera che le cose qui cambiarono. Voglio dire, non in apparenza, ma nell’interno, nel modo di guardarci. Il signorotto che aveva sulla coscienza la vita di Antonio, non fu molestato dalla giustizia, ma ugualmente andò via di qui e non è più tornato. Anche il delinquente che noi sospettavamo come esecutore dell’omicidio, neppure lui fu molestato, ma anche lui andò via e non è più tornato. Ci sarebbe ora da raccontare l’agonia della povera Assunta… “ “Continua, ti prego”, dice Marco a Biagio. “Chi può raccontarti di tua madre meglio di noi’, dice la moglie di Biagio, “è Francesca la saponara. Erano state sempre unite e lo rimasero fino alla fine. Devo andare a chiamarla?”. “Posso andare io da lei. Dove abita?” domanda Marco. “Lassù dietro la chiesa”.

Marco trova Francesca seduta anche lei sulla soglia di casa. “Cosa vuoi? Chi cerchi?” gli domanda la vecchia. “Zia, conoscevi una certa Assunta la tintora, la moglie d’Antonio Orecchione?” gli domanda Marco. “Lascia stare i morti in pace”. “Ti ricordi che Assunta aveva un figlio?’”. “Si, secondo la volontà del padre che era già morto quando partorì, lo chiamò col nome del nonno, Marco. È stato allevato in città, in un orfanotrofio, e pare che sia diventato un poco di buono”. “Zia, non devi credere ai pettegolezzi”. “No, no, me ne hanno parlato delle persone che lo conoscono. Sta ad Avezzano, ma bazzica molto a Borgo Nuovo. Pare che sia un vero farabutto, insomma il contrario del padre e della madre. “Non continuare, zia, perché Marco sono io”. Emozione di Francesca e scuse a non finire; poi la vecchia si mette a gridare per far accorrere il vicinato. “Sapete chi è questo? Non lo riconoscete? Guardatelo in faccia, io l’ho subito riconosciuto”’, Molta gente attornia e festeggia Marco. Poi Francesca lo invita in casa e gli offre, secondo l’uso antico, un pezzo di pane, un bicchiere di vino, e un uovo da bere. “Biagio il canestraro m’ha detto che tu hai conosciuto bene mia madre”, dice Marco. “Ci siamo diviso il sonno e le lagrime”’, racconta Francesca. “Se una andava in un pellegrinaggio, l’altra non poteva stare a casa. Se una faceva la comunione, l’altra non poteva astenersene. Se una riceveva una lettera, non la poteva nascondere all’altra. Sai perché gli piaceva Antonio e lo sposò? Era un uomo di compagnia; per gli amici si sarebbe impegnato la camicia. Quando Antonio, costretto dal bisogno, dovette vestire l’uniforme del prepotente, cominciò l’afflizione della povera Assunta. Il suo rimorso era che Antonio l’aveva fatto per amore di lei. Poi arrivò la sera di sangue. Temevamo che l’infelice moglie uscisse di ragione. II parto che ti mise al mondo fu assai difficile. Il medico disse subito: Non campa. Visse ancora, una settimana, ma con una straordinaria lucidità di mente. Sapeva di morire; la sua ansietà era per l’avvenire del figlio. Supplicò il curato perché lo facesse ricoverare in qualche istituto. Prima di morire, offrì la sua vita a Dio perché il figlio crescesse onesto come il padre. “Non m’importa se ricco o povero, ma che sia onesto”, furono le sue ultime parole”. Marco rabbrividisce. Francesca l’osserva in silenzio. “Non mi pari cattivo”, gli dice; “forse ti ha preso la malattia del guadagno facile. Ho un parente giù a Borgo Nuovo, so come si vive laggiù. Molto meglio di qui; ma sono felici? Essi non fanno che litigare. E quanto tempo durerà l’abbondanza? II governo vi ha dato la farina, ma il lievito ognuno deve mettercelo da sé’’. “Cosa intendi per lievito? “. La vecchia indicò nella direzione del cuore. “Senza un po’ di cuore non si fa nulla di buono. In quello che l’uomo fa, il cuore è come il lievito nel pane, lo fa ricrescere…”.

Il camion di Marco ridiscende rapidamente verso il piano. La campagna è buia e silenziosa; attorno a Borgo Nuovo non si sentono che grilli e rane. Il camion si ferma a un angolo di strada. Egli si avvicina in punta di piedi a una finestra del pianterreno e bussa leggermente su una persiana. “Silvia”, chiama sottovoce. La ragazza veglia, ancora vestita. Si avvicina alla finestra e sposta d’un palmo le persiane. “Cosa vuoi, sfacciato?” gli dice. “Devi scusarmi”, dice Marco. “No”, risponde lei. “Ne ho abbastanza di te. Sei cattivo ed egoista, non hai un solo vero amico”. “Ho te’. “È finita”, dice la ragazza e gli chiude la persiana in faccia. Mentre si svolge questo breve dialogo, nella camera accanto si è svegliato Achille, il fratello di Silvia. Egli riconosce le voci e temendo che Silvia accolga Marco nella propria camera, prende la rivoltella dal tiretto del comodino e resta in guardia dietro le persiane, finché non vede Marco allontanarsi. Marco torna al suo camion è prosegue per la sua strada. Nell’attraversare il piazzale vede, attorno ai pali dei lampioni elettrici, degli striscioni ancora umidi di colla. Scende dal camion per sapere di che si tratta. È una convocazione d’una assemblea straordinaria della cooperativa, per la sera del giorno dopo; all’ordine del giorno: Proposta di scioglimento. Silvia, sulla sua bicicletta, gira il giorno dopo in lungo e in largo per il Borgo Nuovo, adducendo ai conoscenti i pretesti più diversi, nella speranza d’incontrare Marco, non essendo molto contenta del modo come l’ha trattato la sera prima. Ripassando sul piazzale, Silvia sosta un po’ vicino a un capannello di contadini e di massaie che discutono le ultime novità della riforma agraria e le sorti della cooperativa. Abbiamo fatto il passo più lungo della gamba, dice uno. Il carro è nuovo, ma l’asino è vecchio: non siamo abituati a tante novità in una volta. La cooperativa ha speso tutto quello che possedeva per la trebbiatrice, ha fatto male. Dovrebbe pensarci il governo. Aiutati che Dio t’aiuta, dice un altro. Interviene il maestro di scuola: “Sapete quanto è stato speso finora per le strade? Per i canali? Per le case coloniche?”, Egli cita delle cifre. Alcuni lo contraddicono, ognuno dice la sua. “Dopo lo sforzo è venuta la stanchezza. Aspettavate che grandinassero gnocchi già cotti e conditi?”. Silvia prosegue le sue ricerche; al giovane addetto al distributore di benzina domanda: “Hai visto Marco?”. “L’aspettavo, ma non s’è visto”, dice.

Marco passa l’intera giornata nel suo garage di Avezzano. È di pessimo umore, non risponde agli scherzi dei compagni, si lascia sfuggire un’occasione di avventura con una signora straniera che ha bisogno di una piccola riparazione alla sua automobile e che l’invita ad una gita. La sera torna a Borgo Nuovo. Il piazzale è insolitamente deserto. Dalla sala delle riunioni che è dietro la tettoia delle macchine agricole, gli arrivano gli echi dell’assemblea della cooperativa. Vi assistono tutti, anche i non soci. Marco vi si avvicina, ascolta dalla porta. In fondo alla sala c’è un tavolino. Il presidente è seduto, ma vicino a lui qualcuno sta leggendo la relazione amministrativa. Egli cerca di giustificare le spese, vuole dimostrare che tutto è stato fatto correttamente. Vari lo interrompono: “Se è così, perché le cose sono andate male? Ai voti! Ai voti! Scioglimento!”. Lo stesso relatore ammette che così non si può andare avanti. “Avremmo bisogno urgente d’un camion, ma ci mancano i soldi per comprarlo o affittarlo. Abbiamo alcuni crediti, ma sono inesigibili. Quindi, d’accordo, scioglimento! Ma, badate, è una sconfitta. Noi perderemo quel poco che avevamo fatto. Nuove grida lo interrompono: Ai voti! Ai voti!’’. Prima del voto il presidente chiede se qualcuno vuol parlare contro lo scioglimento. È in questo momento che, vicino alla porta, attorno a Marco che ne è la causa, scoppia un violento tafferuglio. Alcuni hanno interpretato la presenza di lui come un dileggio. Si odono grida di “fuori! fuori! buttatelo fuori!”. Marco mena colpi formidabili a destra e a sinistra e riesce a sfondare nell’interno della sala. Egli chiede al presidente che lo lasci parlare. “Su che cosa?”. “Contro lo scioglimento”’. “Ma tu non ne fai parte; anzi, ne sei stato il più accanito avversario”. “Ho cambiato parere. Vi aderisco in questo momento. Cosa vi manca per continuare? Un camion con un autista? Io sto a vostra disposizione, col mio camion”. La sorpresa generale lascia sorvolare sulla questione formale che Marco non avrebbe diritto alla parola. “Vieni avanti”, gli dice il presidente. “Dì quello che hai da dire, ma comincia col giurare che non sei ubriaco e che non è uno scherzo”. Marco si fa avanti, franco e deciso. “Parla”, gli dice il presidente. “Siccome non sono un avvocato, ma un autista, non so fare discorsi, quindi non m’interrompete”, egli dice. “Se m’interrompete, finisce a cazzotti, e voi sapete che non ho paura di fare a cazzotti”. “Parla”, gli dice il presidente. “Sapete perché qui le cose vanno male?” dice Marco. “La colpa è di due categorie di uomini che, senza offesa, si possono chiamare con nomi di bestie: gli uomini-lupi e gli uomini-pecore. Gli uomini-lupi, anch’io sono stato finora uno di essi, sono gli egoisti assoluti, senza il minimo riguardo per il prossimo, quelli che stanno maggiormente bene se vedono che i loro vicini stanno male. Poi ci sono gli uomini-pecore, i passivi e gli indifferenti, quelli che sono cresciuti con gli aiuti ai terremotati, si sono messi a posto con i sussidi per le varie guerre, hanno tirato a campare con l’UNRRA, la Commissione pontificia, i quaccheri e considerano la riforma agraria come la manna che cade dal cielo e che perciò hanno l’abitudine di dormire supini con la bocca aperta. È possibile che le cose vadano bene con una maggioranza di uomini- lupi e di uomini-pecore? Si, abbiamo ricevuto la terra, le macchine, i concimi, le case, ma non basta”. “Cosa manca?” qualcuno gli grida. “Non lo interrompete”, supplica il presidente. “Evitate che finisca a cazzotti!’. “Quello che manca”, prosegue Marco, “me l’ha spiegato una vecchia contadina di Borgo Vecchio, che forse qualcuno di voi conosce, si chiama Francesca la saponara. Il governo vi ha dato la farina, m’ha detto Francesca, ma per fare il pane non basta, perché ci vuole il lievito che lo faccia ricrescere. Durante tutto il giorno ho riflettuto alle parole di quella vecchia e mi pare di aver capito una cosa. Gli uomini-lupi e gli uomini-pecore non possono fare nulla di buono, perché essi non sono nulla di buono. Qualunque cosa gli uomini fanno, se vogliono che ‘ricresca’, devono metterci il cuore. Come volete che ‘ricrescano’ gli affari di una cooperativa se è composta di uomini-lupi e di uomini-pecore? La differenza però è questa: i lupi muoiono lupi e le pecore muoiono pecore, ma gli uomini, non si sa come ma è certo, possono cambiare. Dunque, se voi ci state, ve lo dico francamente, io non mi tiro indietro. Domani mattina, alle cinque, starò qui davanti alla porta col mio camion e, se troverò una squadra di voi, andremo a caricare”. Mentre Marco parla, l’assemblea passa rapidamente dalla sorpresa, all’incredulità, all’entusiasmo. Alla fine una grande ovazione copre le sue parole. Achille, il fratello di Silvia, va verso di lui e l’abbraccia. L’indomani mattina il camion di Marco è davanti alla porta della cooperativa quando arrivano gli uomini scelti come caricatori. Mentre il camion sta per partire, arriva Silvia in bicicletta. “Cosa vuoi?” grida Marco. “Abbiamo fretta!’’. “Non posso gridarlo” risponde Silvia. La ragazza salta sul predellino per parlargli senza che gli altri capiscano. “Va bene” gli dice, “che anche per la riforma agraria ci vuole il cuore, ma un pochino devi riservarlo per me”.

Ignazio Silone